“Padre terra”. In dialogo con Barbara Buoso

 

a cura di Gianna Cannì e Anna Rita Merico

Immagine in copertina di Eduardo Chicharro Aguera

 


Gianna: Partirei col farti una domanda sul titolo “Padre terra”.

All’origine, all’atto del concepimento della vita di Giovanni, c’è Rosalba e il suo desiderio spasmodico, ai limiti dell’isterico – tanto da accusare Primo di non volerlo abbastanza quel figlio – di diventare madre sfidando le leggi dell’uomo dell’infertilità e scegliendo di ricorrere all’aiuto di un’altra donna, la Botanica, capace di interporsi tra leggi naturali e quelle umane. A un certo punto la Botanica, emarginata e messa al bando dagli uomini, dirà che non è mestiere così facile quello che le spetta: altrimenti le sarebbe stato molto più comodo far nascere i bambini dalla pancia dei maschi, ma lei innesta la vita in un grembo femminile. Con la morte della madre, Giovanni viene consegnato alla terra degli uomini, dove inizia a muoversi e a scardinare, proprio grazie a una sensibilità privilegiata legata a quella vicinanza originaria con la terra, che gli fa sentire la voce della madre e del creato, le leggi dei maschi, ridefinendo tutto il mondo in cui abita, insegnando a suo padre a cambiare, che è possibile farlo, mostrandogli nuovi modi di vivere prendendosi cura della terra e di tutti gli esseri viventi, così che la terra diventi anche Padre terra.

G.: Il romanzo di formazione di Giovanni, bambino nato da un sortilegio vegetale, è accompagnato dall’ “incessante discorso che il creato fa ad ogni uomo”, discorso fatto di suoni, fruscii, versi ma anche delle parole precise e insostituibili della cultura contadina, molto presenti nel romanzo, ormai rare e quasi sconosciute. Quanto la lingua di un luogo somiglia al suo paesaggio? Che territorio racconta la lingua del tuo romanzo?

Il paesaggio plasma il linguaggio, lo forgia in un processo inverso di “messa in parola”, di lallazione vera e propria, di accompagnamento al “fonema” ambientale, ossia tutti quei suoni che non escono da una voce umana ma che costituiscono il reticolo di sottofondo, il fondale direi, che contiene tutto e ogni cosa permette. Non a caso, quando ci svegliamo presto alla mattina, se viviamo in città, ci stupiamo del silenzio. Io vivo a Padova, all’Arcella, i moti delle macchine sono continui: i rumori dei pneumatici che si logorano sulla strada, la combustione dei carburanti, i sibili dei nuovi motori, i ronzii delle tecnologie elettriche che non spaventano più i gatti e i cani e li ammazzano per strada con ancor maggior dileggio. Il mio territorio, in Padre terra, racconta un linguaggio diverso: il silenzio delle zolle rivoltate dalla lama del versorio che si schiariscono mentre i becchi degli uccelli le curano dai vermi; ci fa vedere grovigli di raspi macinati dall’elica che separa ciò che è utile all’uomo da ciò che non lo è più; ci fa sentire l’aria che si muove tra le danze sconsiderate di Michele e Giovanni, famelici di un destino che li affaticherà prima di farli vivere.

G.: Due scene mi hanno colpito particolarmente: la scena dell’uccisione del maiale e quella dell’aggressione a Giovanni nei bagni della scuola. La sopraffazione, si legge nel romanzo, è nell’ordine naturale delle cose: questa consapevolezza del protagonista sembra restituire senso alla violenza subita. E’ una legge che vale sempre? Esiste una sopraffazione innaturale e quindi evitabile?

In realtà Giovanni, proprio nella scena in palestra con i suoi compagni, fa vedere la sopraffazione evitabile, spezzandone la catena: quella in cui non si accetta la sfida, non dico sia quella dove si rimane inermi, passivi, no, ma dove si oppone alla prepotenza, al sopruso, un’alternativa… che infatti è vista come “follia”. Non è un caso direi.
C’è una ineluttabilità nel sopruso, un meccanismo automatico, evitabile non so, sicuramente spegnerlo si può sempre, e il più delle volte si passa per matti: dopo la violenza in palestra il preside non chiama i genitori dei compagni, ma il padre del ragazzo che non ha risposto alla violenza con altra violenza, rendendosi “strano”.

G: Il mondo arcaico che racconti è un’alternativa al mondo cittadino e senza ritmo in cui la maggior parte di noi vive? o ne rappresenta il cuore nascosto? Te lo chiedo perché, leggendo il libro, ho provato un senso di riconoscimento profondo anche se non ho mai vissuto in campagna… Nelle donne ( o forse in tutti) c’è una memoria della sapienza della Botanica?

La civiltà contadina è il cuore nascosto del nostro vivere, non può essere un’alternativa perché – vedi sopra – si rischierebbe di passare per folli: sarebbe impensabile “tornare”, senza essere considerati hippy. O “strani”, eccentrici. Mettersi all’ascolto di questo cuore profondo, del battito primordiale penso però sia la scelta che può portarci a valorizzare l’esistenza, il nostro stare al mondo, una relazione con il mondo naturale dove si colloca la nostra origine di esseri viventi. Siamo impastati di un passato la cui origine è più lontana della nostra nascita e funge da richiamo inconsapevole. In tutti noi c’è una matrice antica legata al nostro essere qui, anche se non abbiamo vissuto in campagna troveremo sempre qualcuno, qualcosa che ci dirà, ce lo farà capire tramite un segno che un rimedio – a quello che in quel momento ci parrà ingovernabile, inconcepibile, senza senso – c’è.

Anna Rita: Una bella visionarietà attraversa l’intero romanzo. Il costrutto linguistico di Padre terra presenta caratterizzazioni come l’utilizzo del dialetto e la presenza di onomatopee: la resa è quella di un ritorno primordiale del dire, una lingua sensoriale. Nella narrazione una nascita “da sortilegio” orienta in trame narrative da romanzo classico. Visione, linguaggio e trama conducono ad una precisa dimensione della relazione con una natura terragna e piena. 
Ho apprezzato una bella forza ed un attento sguardo sulla contemporaneità. La tua è una contemporaneità che non intende procedere “in avanti” ma pensare ad un salto evolutivo capace di tornare alla radice e desiderare origini.   
Quali le/i tue/oi scrittrici/ori di riferimento, quale il tuo percorso formativo in letteratura?

Bella riflessione. Non sono una persona che vanta una rete relazionale “contemporanea”, chi mi conosce sa che non parlo di un tempo, parlo in un tempo; ho sempre trovato casa nei racconti e resoconti di chi ha vissuto prima o di chi mi ha espresso idee future; non amo il presente, amo le persone che a fatica lo vivono, che con grande fatica lo abitano. L’umanità mi attira, soprattutto visivamente, vedo le persone muoversi e sento vivere e sento che si può sperare in qualcosa.
Ho una formazione molto variegata, mi vien da dire, leggo a ondate, come volessi abbuffarmi, tendo a fissarmi, a ossessionarmi per poi lasciar andare via dopo la l’atto primordiale. Anna Maria Ortese (come non pensare a Solitario lume) mi è faro per la sua visionarietà fuori dal tempo; Fabrizia Ramondino con la sua isola riflessa e i suoi passaggi a Trieste; Alba De Cespèdes per l’indagine psicologica, Flannery O’Connor per il modo in cui intreccia grazia e violenza,  Marilynne Robinson per la sua relazione con Dio, e poi due autori che rileggo fin da quando ero ragazza, Cesare Pavese e Pier Vittorio Tondelli.

 

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