Le ragazze del Monte Morrone

di Emiliano Sabadello

Una società che ricorda e dà voce ai mediocri e che dimentica i sofferenti non è una società. Per fortuna, a parziale rammendo della faccenda, non tutti hanno dimenticato le ragazze del Monte Morrone e c’è perfino qualcuno che tra il Veneto e l’Abruzzo ancora se ne occupa e preoccupa: su Internet gli articoli sono qualcuno in più rispetto agli anni scorsi e nel 2016 la giornalista Maria Trozzi ha perfino dedicato un libro d’inchiesta all’accaduto, Il sentiero delle signore, libro che però risulta ormai introvabile e che sarebbe bene tornare a pubblicare.

Anche se la vicenda è abbastanza conosciuta, è bene riepilogarla nelle sue linee generali, così da avere una base minima sulla quale costruire queste poche riflessioni1. Il 20 agosto 1997 tre ragazze padovane, Diana e Silvia Olivetti e Tamara Gobbo, che campeggiavano nella zona della Majella, decisero di fare un’escursione sul monte Morrone. A un certo momento, incontrarono un uomo, al quale chiesero indicazioni per la cima del monte, le ricevettero, lo ringraziarono e continuarono l’escursione. Dopo qualche minuto, le tre si accorsero di essere seguite da quell’uomo, che non lasciò loro il tempo di reagire: le minacciò con la pistola, sparando a Silvia, lasciandola agonizzante o morta, dal suo punto di vista, per volgersi poi a Tamara, uccidendo anche lei e a Diana, che prima di essere uccisa viene anche violentata2. L’uomo, che faceva il pastore su quei monti, si chiama Alivebi Hasani, di nazionalità macedone. Viveva da mesi isolato, insieme soltanto alle pecore, in uno stazzo che anche solo a guardarlo mette i brividi, fuori dalla civiltà e dalla società, senza neanche la possibilità di parlare con chicchessia, se non con un gatto grigio con le zampe bianche. Hasani, occupato a uccidere, non si accorge che Silvia ha fatto soltanto finta di essere morta e che si è allontanata, in cerca di aiuto. Dopo più o meno 5 ore di doloroso cammino, Silvia arriva in una località che si chiama Marane, sull’altro versante del Morrone rispetto a quello dove le ragazze avevano campeggiato, e nell’iniziale scetticismo di chi vede arrivarsi di fronte una ragazza piena di sangue che dice loro che qualcuno ha ucciso sua sorella e una loro amica, riesce a farsi credere, prima di svenire. I suoi primi soccorritori chiamano allora la polizia e l’ambulanza. I poliziotti partono per la zona del Morrone indicata da Silvia e la mattina del 21 agosto trovano i cadaveri delle due ragazze3. Individuano subito anche lo stazzo dove vive Hasani, lo fermano e ottengono la sua piena confessione, escluso come detto per la violenza sessuale. Il caso è chiuso a tempo di record.

L’avvocato Nino Marazzita assume la difesa di Hasani. Dopo qualche anno, in un capitolo di un suo libro che non appare praticamente mai nelle ricostruzioni dell’accaduto, Marazzita ne tratteggerà la storia umana, che certo non potrà mai cancellare ciò che ha fatto, ma che inevitabilmente fa parte dell’accaduto. “Alivebi, detto Alì, conviveva con i suoi demoni considerandoli alla fine una buona compagnia, anche perché era l’unica su cui, almeno prima di finire in carcere, potesse contare. […] La sua ferocia nel distruggere due giovani vite, senza rimorso, era tale da suscitare orrore anche in un avvocato avvezzo a ogni efferatezza, ma nello stesso tempo, per le condizioni in cui si era sviluppata, tale ferocia generava in me una certa pietà”4. Anche guardando la foto di Hasani riprodotta nel libro di Marazzita non si può associare quel volto a ciò che ha fatto, non immediatamente, se non presumendo davvero uno scollamento primario tra il pastore e la realtà. Ma non si vuole fare, né si sta facendo, una sorta di riabilitazione di Hasani, perché anzi non è lui il centro del presente articolo, ma sono e restano le tre ragazze da lui brutalmente aggredite. E come sia stato possibile che un evento così efferato sia potuto avvenire in quei luoghi peraltro pieni di storia e di umanità5.

La montagna è un luogo di pace e non certo di crimini così efferati. La montagna va sempre e comunque rispettata, ma cose del genere sono davvero incomprensibili: in montagna si muore per altri motivi, legati allo scontro con la stessa. Con ogni probabilità, le ragazze avevano di fronte a loro, nei momenti di quel tragico incontro, sentimenti di questo tipo, che non prevedono, non dovrebbero prevedere, quanto poi invece è loro accaduto. Inoltre, il Monte Morrone è anche uno dei luoghi di Celestino V: ne è anzi uno dei luoghi più importanti, perché è quello nel quale si trovava quando gli giunse la notizia di essere stato scelto per il soglio pontificio. Fin dal 1239, il futuro Celestino V aveva scelto il Monte Morrone come luogo dell’anima preferito, ritirandovisi in ascetica solitudine. Dal 1241, per diversi anni, o forse per decenni, continuò a vivere isolato sul Morrone e nella zona della Majella in generale, in un eremitaggio che abbandonò soltanto per brevi periodi. Nell’estate del 1294, mentre Pietro si trovava in montagna, gli fu recapitata da tre ecclesiastici la notizia della sua elezione a papa: ci si può immaginare la fatica fatta da questi per salire fin lassù, mille metri di dislivello in pochi chilometri, che ancora oggi mettono a dura prova gli escursionisti, con i sandali o altre calzature non certo adeguate.

Pur immaginando che l’ascesa dei tre messi fu fatta dall’attuale paese di Roccacaramanico, c’è la possibilità invece che fu fatta proprio dal futuro, e tragico, sentiero delle signore, che segue un pendio più dolce e che conduce al Morrone diluendo un po’ di più la fatica. Ma non è facile pensarla così, perché anche in questo caso la montagna era stata la casa di un eremita, il suo luogo di elezione, un luogo che gli consentiva di sentirsi sempre e comunque vivo, al contrario di quello che invece era accaduto nella mente di Hasani. La montagna era stata qualcosa di spirituale, una compagna certo dura, ma che al contempo non tradiva mai le aspettative che in essa si riponevano. E se poi Celestino V aveva lasciato il campo a chi certo non vedeva l’essere umano dialogante con la natura, quanto con la ricchezza e con lo sfarzo, facendo “il gran rifiuto” aveva mostrato come la montagna ancora parlasse dentro di sé, come lo richiamasse e non gli lasciasse alla fine scelta.

È, quello che avete letto, un tentativo di ricordare tre ragazze che troppo spesso vengono dimenticate, ricordarle a partire da un’escursione fatta da chi scrive e da altre persone qualche anno fa e all’avervi incontrato la lapide, il cippo, che fissa nella memoria di chi vi passa ciò che è accaduto6. Alle pendici del Monte Morrone la memoria riguardo alla sorte delle tre ragazze padovane è rimasta piuttosto radicata, indice di quanto all’epoca i fatti possano aver scosso quel territorio. A distanza di così tanti anni, ci sono ancora delle signore che, pur facendo un po’ di confusione con le date, ti ammoniscono nel ricordare quei fatti di sangue, nei quali non soltanto hanno perso la vita due ragazze e una ha iniziato un altro cammino durissimo, ma nei quali ti ci puoi specchiare per vedere tutte le storture di un mondo che va alla malora. E che si allontana sempre di più dalla figura di Celestino V. Il cippo poi, con la sua solitudine che si allunga durante le stagioni e le notti, non può fare altro che ricordare e fare da monito, mostrando all’umanità che può in un attimo perdere l’umanità.

Tutto questo, però, ha a che fare soltanto con il nostro punto di vista, che rischia di essere perfino blasfemo, profanatorio, rispetto alle vittime, che sono state distrutte nella loro umana unitarietà, pur nei diversi rispettivi destini. Questo articolo non vuole essere né di critica, né tantomeno vuole rimescolare le carte giudiziarie o giornalistiche: è solo un punto di vista di un camminatore, che è stato colpito dall’incontro con la storia di queste tre ragazze. È il punto di vista della montagna, della cima che sovrasta le miserie umane, e il dolore. Inoltre, come detto, lo scopo primario di queste parole non definitive è riportare alla memoria la vita delle tre ragazze del Morrone, e con esse le loro storie, troppo spesso rimosse e dimenticate. Altro, non dovrebbe avere importanza.

1 Proprio il libro di Trozzi prova a fare luce su quella che viene considerata una vicenda alla fine un po’ troppo lineare, cercando mancanze e zone d’ombra, nelle indagini e nella storia in generale. Qui, viene però presentata la cronologia per così dire ufficiale, perché il presente lavoro non ha lo scopo di giudicare chicchessia, se non la nostra società, che nei confronti della violenza è in qualche modo ancora molto ambigua e ondivaga. Cfr. Rosa Scognamiglio, https://www.ilgiornale.it/news/cronache/delitto-morrone-ancora-ombre-sulla-mattanza-1970075.html, 24 agosto 2021.

2 L’uomo nella sua piena confessione negò soltanto lo stupro.

3 La relazione della polizia sul ritrovamento dei cadaveri è davvero dura da leggere.

4 Nino Marazzita con Matilde Amorosi, L’avvocato dei diavoli, pp. 86-87, Rizzoli, Milano, 2006. Cfr. [Redazione cronaca], https://abruzzolive.it/venticinque-anni-fa-il-delitto-del-morrone-ancora-punti-oscuri/, 15 agosto 2022.

5 Cfr. questo articolo dell’epoca: Angelo De Nicola, https://www.angelodenicola.it/articoli/messaggero/1999/1999_01_21.htm, 21 gennaio 1999.

6 Per altri, più degni ricordi, cfr. https://www.ilgazzettino.it/nordest/padova/strage_maiella_anniversario_25_anni_saonara_omicidio_diana_olivetti_tamara_gobbo-6936152.html e https://www.reteabruzzo.com/2017/08/21/ventanni-fa-la-strage-del-morrone-i-genitori-di-tamara-tornano-sul-luogo-delleccidio-video/

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