28 Ott Le promesse dei mostri, in viaggio con Donna Haraway
di Muriel Pavoni
Considerato che la prima pubblicazione di questo testo risale al 1992, ovvero prima della diffusione di internet, è incredibile quanto, nell’ottica attuale, risulti anticipatore.
Si tratta di un diario di viaggio, afferma la stessa Haraway in apertura, un viaggio che porta lontano ma che si conclude nuovamente al punto di partenza.
Cosa avviene, nelle migliori delle ipotesi, quando ci si mette in viaggio? Si cambiano i punti di vista. Lo spostamento in luoghi diversi è un’occasione per ripensare e ripensarsi, mette in atto un nuovo modo nuovo di articolarsi nello spazio, una contaminazione; mentre il ritorno non è altro che un riappropriarsi di un ambiente con nuove consapevolezze.
È questo il modo che ha Haraway di trattare ogni argomento: nel momento in cui parla di qualcosa la sposta, la colloca altrove, attraverso un utilizzo continuo di metafore e slittamenti, per poi rimodularla.
La figura evocata all’inizio del viaggio è quella del mostro: soggetto che innesta natura e cultura, entità sfuggente perché si allontana continuamente da sé. Il tema centrale è l’ambientalismo, il guaio ambientale e una terra, che abitiamo, che si presenta al limite delle sue possibilità; la domanda, per noi che l’abitiamo, è cosa dobbiamo fare?
Il campo che s’indaga è quello che riguarda il divario tra natura e cultura; lo scopo è arrivare a nuovi punti di vista e non solo, trovare un luogo diverso per ripensarci.
La prospettiva ambientalista, come è stata concepita finora, è un modello di possessione, come quello della scienza, dal quale bisogna smarcarsi. Finora si sono spese energie per trasformare la natura, con risultati piuttosto deludenti. Però, citando Haraway, la natura non è un luogo fisico in cui recarsi, un tesoro da conservare in banca, un’essenza da proteggere o violare, non è risorsa per la riproduzione della specie umana, non è nascosta e non deve essere svelata, né protetta attraverso la creazione di parchi e zone isolate, da preservare. L’invito di Haraway è quello di riappropriarsi della natura, ritornare ad abitarla, perché noi ne siamo parte. Il ribaltamento di prospettiva è proprio tra un modello di trasformazione salvifica e l’esserne parte.
La natura è anche un topos, un costrutto, un artefatto. In questo viaggio la natura viene esplorata con le lenti dell’artefatturalismo, tenendo presente che gli organismi non nascono, ma vengono costruiti da attori collettivi e gli attori e le attrici non iniziano né finiscono con noi, noi ci stiamo in mezzo. La natura è prodotta da un’interazione tra umani e non umani, perché la natura è un prodotto della relazionalità. Perciò al concetto di riproduzione, che ricorda la clonazione, ovvero la creazione di una copia, si preferisce quello di generazione, che diventa quasi fantascientifica, in un altrove di modelli che influiscono gli uni con gli altri; ecco come viene alla luce il concetto di cyborg e di mostro che sono organismi che sfuggono: testo e materia, corpi organici, tecnici, mitici, testuali, politici.
Sono molti gli esempi evidenziati a suffragio di questo concetto caotico e interconnesso di generazione: il sistema immunitario, per esempio, che spesso viene rappresentato attraverso un modello ordinato e militaresco, qui è invece caotico e anarchico. Le combinazioni cellulari parlano di corpi che si assemblano, si ammucchiano, si annientano, si innesta quindi un concetto di natura mostruosa e perturbante dove il concetto di madre natura viene scardinato.
Pure il concetto di democrazia rappresentativa viene messo in discussione, in quanto il meccanismo della delega è incapace di portare le istanze dei diretti interessati, mentre è molto efficace per difendere gli interessi coloniali e antropocentrici.
Le interconnessioni sono annientate dai meccanismi di potere e di rappresentazione, l’incitazione invece è a mettersi dentro al testo, nella scena. Chi può rappresentare un feto, un giaguaro, l’Amazzonia? L’unica soluzione è sentirsi parte di loro, interconnessi, invischiati; non bisogna essere a favore di una specie, bisogna difendere, ogni giorno, il diritto di ciascuna specie a non essere vulnerabile. Non esiste la società che contempla la natura perché la natura siamo noi, siamo un unico assemblaggio. Non bisogna reclamare terre protette, ma giustizia, l’Amazzonia non va difesa come terra ma come sistema, coi suoi abitanti, che sono gli unici che possono avere nelle mani il potere di difendere il loro habitat, senza intermediari.
Non c’è distinzione tra informazione e materia, il nostro modo di guardare le cose le trasforma e dobbiamo impegnarci a guardarle da dentro, non da fuori, a considerare il valore dei saperi situati, ovvero quelli ancestrali che stanno dentro le comunità e fuori dalla scienza che è priva di fantasia.
Bisogna prendere responsabilità, farsi carico degli ibridi, non possiamo salvarci e non salviamo nessuno, dobbiamo accettare il nostro destino di morte, metterci nel quadro senza essere in cima alla piramide, accettare un futuro multispecie, senza bisogno di ventriloqui, occorre che tutti abbiamo a cuore l’alterità. L’idea è di costruire collettivi sempre più potenti che sappiano utilizzare i simboli. Via via, verso la fine, il viaggio si fa sempre più politico, e rispunta l’organismo da cui siamo partiti, il mostro che ha innesti animali, umani, discorsivi e cyborg e ora, alla fine del viaggio, sentiamo di capirne un po’ di più di questo strano individuo perché lui è parte di noi anzi, azzardo: la più bella parte di noi.
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