LA VEGETARIANA, SCENE DAL ROMANZO DI HAN KANG

di Muriel Pavoni

Una visione dell’adattamento del testo Daria Deflorian e Francesca Marciano
co-creazione e interpretazione: Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
Regia Daria Deflorian

Uno spettacolo che si fa lettura scenica, uno stare nel testo in maniera mimetica, l’adattamento di Deflorian al romanzo del premio Nobel Han Kang. Sugli applausi finali, quando i quattro attori entrano nel proscenio, si ha la sensazione che i loro corpi emergano dalle pagine di un romanzo tridimensionale, più che da una messa in scena. Sono quattro corpi fissi e disturbanti quelli che danno vita alla narrazione di Han Kang. Così come il corpo è fondamentale nel romanzo, tanto lo è a teatro, si tratta però di una corporeità fissa, mai dinamica, che riempie lo spazio quasi esclusivamente di parole. Sono le voci, il raccontarsi e confessare ossessivo, a ipnotizzare lo spettatore, su questo Deflorian, artista attenta e sensibile, gioca sapientemente.
Si avverte un grande rispetto per la scrittura e un lavoro profondo e minimale giocato sull’ellissi, che però talvolta risulta didascalico, come se il concentrarsi sulla resa del romanzo avesse tolto qualcosa alla naturale magia della scena.
Le tre partiture sono mantenute, con i protagonisti di riferimento, ritroviamo le stesse voci narranti del romanzo (marito, cognato, sorella), moltissimi i monologhi, dialoghi ridotti all’osso, per lo più gli attori si rivolgono direttamente al pubblico in un soliloquio dell’effetto straniante, in sottofondo una musica cadenzata ha il potere di proiettare lo spettatore in una dimensione narcotica, al limite del realismo magico. Le luci e le ombre le vere protagoniste in un chiaroscuro che evoca sogni, visioni e presenze invisibili. Le sfumature luminose incantano lo spettatore nella sequenza più affascinante, quella in cui, con l’aiuto di una lavagna luminosa, il pittore dipinge il corpo di Yeong-hye.
La scenografia è pure tripartita (un chiaro richiamo ai punti di vista), troviamo: un ambiente principale con due porte ai lati, un interno spoglio, essenziale, dai colori tenui, in cui appare un materasso, delle piante. La sensazione visiva è pittorica, ci si ritrova all’interno di una natura morta di Giorgio Morandi. È proprio il silenzio, unito all’inquietudine morandiana a mettere a fuoco il senso profondo dello spettacolo, dove in effetti si parla molto ma non si comunica mai, perché l’altro resta il vero mistero e, nel silenzio, ciascuno è portato, in solitudine, verso la propria personale deriva.
L’enigma più angosciante è rappresentato dalla protagonista, fin da subito descritta dal marito come una donna ordinaria, per diventare, sul finale, il centro attorno al quale ruotano tutti i personaggi. È lei il problema irrisolto, tanto da ossessionare sia il cognato, sia la sorella, oltre al marito naturalmente. È lei il centro di tutto. È il suo corpo: esposto, scheletrico, scarnificato, denudato, esibito dinanzi allo spettatore per tutto il tempo, a scatenare il perturbante. Un corpo che è desiderato e odiato, ma soprattutto accusato, abusato quasi fosse il corpo del reato, il corpo di un santo, una reliquia da venerare, asessuato e concupito al tempo stesso.
Pochi oggetti creano un universo, come il materasso addossato alla parete in cui marito e moglie misurano le loro distanze in piedi ma distesi, visti come se lo spettatore li vedesse dall’alto, in una prospettiva domestica irreale che diventa architettura impossibile di Escher. Il letto, lontano dall’essere giaciglio accogliente, è il loro campo di battaglia, ring. Occorre stravolgere la prospettiva, intravedere piccole verità nelle ombre, proiettate da una stanza all’altra, per indagare l’enigma.
La vegetariana è un testo che all’apparenza parla di sofferenza e violenza, ma in realtà parla di libertà e vie di fuga. Come Daphne si trasforma in pianta per sfuggire alle brame di Apollo, così Yeong-hye si oppone alla violenza rifiutando ogni possibilità offensiva, attraverso la metamorfosi in pianta si rende inerme. Le piante, non avendo braccia, non possono nuocere. In quanto pianta afferma il suo assoluto rifiuto a alla lotta. Questo allarma tutti i personaggi che la circondano, perché il suo ritrarsi dal conflitto è il gesto più rivoluzionario, il più forte, che trasforma la sua insignificante figura in donna potente e carismatica.
Se questo è il messaggio profondo del romanzo, nell’opera teatrale tale potenza resta più sfumata, in una messa in scena che trae la sua forza dalla fedeltà al testo, si è persa un’occasione. È ben chiaro il lavoro rispettoso e sottile operato da Deflorian, ma allo stesso tempo la mancanza di coraggio nel rielaborare e ricreare con gli strumenti teatro, porta in scena un esito talmente letterario da indebolire il messaggio, che risulta un po’ piatto, come se l’autrice mirasse solamente a un riassunto, ben fatto, ma che non aggiunge nulla; mentre il teatro può offrire infinite possibilità a un testo già così denso e pieno di suggestioni.

 

 

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