23 Nov Dietro la cattedra, sotto il banco. Il corpo a scuola
di Gianna Cannì e Ivana Margarese
Dietro la cattedra, sotto il banco. Il corpo a scuola (Prospero, pp. 244, euro 18) è un testo corale scritto da Lea Melandri e dal collettivo di insegnanti romane «Cattive Maestre», nato nel 2015 e composto da Elisa Amato, Elisabetta Careri, Valeria De Paoli, Serena Orazi, Giuliana Visco e Valeria Zecchini. Il volume ha anche il merito di raccogliere interventi non sempre reperibili facilmente, nati in occasioni diverse.
Da docenti che da anni lavorano ogni giorno a scuola con numerosi studenti e con loro fanno esperienza veniamo subito colpite dal titolo di questo lavoro che mette al centro un elemento ancora ingiustamente sommerso: il corpo. Anche il riferimento a spazi nascosti – il dietro la cattedra e il sotto banco – fanno emergere uno sguardo rivolto a ciò che spesso resta in ombra seppure contribuisca in gran parte a creare quello che sappiamo essere scuola.
Il corpo docente è formato in Italia in maggior misura da donne – circa l’82 per cento – in un modello che affida ancora oggi alle donne cura e accudimento quasi ci fosse una naturale predisposizione o addirittura una vocazione. Donne chiamate a trasmettere un sapere che per lo più le nega o le scorpora, perpetrando quello che bell hooks in Insegnare a trasgredire afferma essere l’idea che stiamo ascoltando “fatti neutrali e oggettivi”.
La centralità del corpo a scuola è un’idea che Lea Melandri – e il gruppo riunito intorno alla rivista “L’erba voglio” – aveva già elaborato negli anni Settanta, quando si era avvicinata al movimento non autoritario e poi al femminismo: a questa idea si connette in modo naturale quella di “interrogare il privato” per vedere dall’interno ciò di cui si alimenta la storia e la vita sociale. In altre parole, per rinnovare dal profondo la scuola, sarebbe necessario farvi entrare “il materiale enorme di saperi, pratiche create da mezzo secolo di movimento delle donne” (p.111).
Dietro la cattedra, sotto il banco. Il corpo a scuola entra nell’attuale dibattito sull’educazione sessuo-affettiva recuperando il valore dell’intimità e dell’esperienza, anche attraverso la scrittura personale e condivisa. Il tema è quel “fuori tema” che larga parte assume nella costruzione di un’identità singolare, condivisa e responsabile, dove l’autonomia e la possibilità di prendere voce nascono dal confronto con le diversità che abitano la scuola e che sempre più vengono livellate in burocrazie e retoriche che poco conservano della scintilla che rende vivo l’apprendimento. E dunque il sotto banco è uno spazio che appare trasgressivo eppure per ogni studente è intreccio necessario con la forma del proprio sapere che non può di certo scindersi dal desiderio, dalla vergogna, dalla solitudine, dalle relazioni e dalla storia che ciascuno incarna.
La chiave che apre “la stanza chiusa” dei bambini e degli adolescenti è la scrittura d’esperienza che, più della parola parlata, consente di “pescare, nel profondo delle vite, quelli che Virginia Woolf chiama «gli oggetti seppelliti», vicende che hanno segnato le nostre vite e che ancora non hanno un nome” (p.59). Praticare sin dai primi anni di scuola la scrittura di esperienza – che non è propriamente autobiografica, in quanto non è fondata sui ricordi, ma si colloca nella zona liminale della memoria del corpo – significa imparare a tessere da piccoli, “Invece che dover ricucire dopo, in età adulta” (p.151), come scrive Elisa Amato. Significa aprire “spazi di parola”, come li chiama Valeria De Paoli.
Il dibattito sull’educazione sessuo-affettiva, e in particolare sulla violenza di genere, non ha ancora prodotto soluzioni educative soddisfacenti – queste soluzioni incredibilmente si accompagnano all’idea di escludere qualsiasi insegnamento legato alla cosiddetta “ideologia gender” – e la ragione sta nella mancanza di radicalità: secondo Lea Melandri, infatti, non si può indagare l’origine della violenza contro le donne senza interrogare l’amore, senza andare alla radice del sogno d’amore, a quel groviglio di prevaricazione e dipendenza da un lato (il lato maschile) e di sottomissione e fantasia di indispensabilità dall’altro (il lato femminile). E negare il precocissimo imbrigliamento della personalità dei bambini e delle bambine – già a sei anni, si legge nel contributo di Elisa Amato – negli stereotipi di genere rende disperata l’impresa di scioglierne i nodi.
La coralità del testo nel permettere a chi legge di intrecciare punti di vista restituisce appieno il processo a tentoni, che è anche e ancora fare scuola. Lavora su sfumature e frammenti, li ricalca, li riscrive e si offre come mappa di navigazione, in cui essere insegnanti è essere un ponte, un’occasione di attraversamenti.
Quando abbiamo iniziato a insegnare ci hanno suggerito di essere dure: “gli studenti non devono capire chi sei, devono temerti”; come se si trattasse di un campo di battaglia in cui le parti devono tracciare bene i loro confini. Ma per cosa? – mi sono, ci siamo sempre chieste. O ancora altre volte: Vuoi dirmi che tu ti fidi dei tuoi studenti? Sono furbi loro, ti mentono.
In questi modi viene scavato un varco di estraneità sempre più posticcio, di posizionamenti rigidi in onore al mito dell’autorità che poco hanno a che fare con il movimento dell’apprendimento che non è mai unidirezionale.
L’autorità è nuda – scrive nel suo bel saggio Valeria Zecchini – e si intreccia alla vulnerabilità se si ha voglia di realizzare un incontro etico, condizione fondamentale per avere accesso alla responsabilità e alla capacità di scegliere. Un dialogo sincero e onesto in classe può rifondare il senso di un’autoritá svuotata, rendendolo più autentico.
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