05 Dic Il sentiero che porta alla casa del tè
di Elisabetta Imperato
É uscito da poco per Casadeilibri, nella sezione Porte d’Oriente, “Il sentiero che porta alla casa del tè. E altri percorsi tra i giardini del Giappone”, una raccolta di quattro saggi di Véronique Brindeau sulla cerimonia del tè e sull’arte dei giardini giapponesi. Il testo, tradotto da Lorenzo Casadei che ne ha curato l’introduzione, è illustrato da un ricco apparato iconografico che accompagna il lettore in un magico viaggio nei quattro giardini più affascinanti del Paese del Sol Levante. Avevo da poco finito di leggere il bel libro di Pia Pera col titolo tratto dalla poesia della Dickinson “Al giardino ancora non l’ho detto” quando è giunta alla nostra redazione la bozza prossima alla pubblicazione della raccolta “Il sentiero che porta alla casa del tè e altri percorsi tra i giardini del Giappone”, corredata da immagini straordinarie. Nell’introduzione si fa riferimento proprio agli scritti di Pia Pera e in particolare ad una recensione apparsa su Gardenia al Louange des mousses della Brindeau, tradotto da Casadei per la stessa casa editrice.
Il sentiero che porta alla casa del tè inizia con l’immagine di una soglia, una semplice porta di legno appena socchiusa, che divide la casa del tè dal flusso urbano e dai rumori della città. Come in un rito di passaggio, l’autrice ci accompagna attraverso il cammino del tè in una dimensione senza tempo, separata dal mondo urbano. È un sentiero che sembra uscito da un dipinto a inchiostro cinese del periodo Song dell’XI secolo. L’intero percorso è tracciato per agevolare l’approdo nell’interiorità. La meta non è altro che dentro di sé. Ogni tappa del percorso evoca una tensione verso l’altrove. La disposizione irregolare delle pietre predispone il cammino e richiede un’attenzione vigile, un passo giapponese dall’ andamento ritmico e musicale che rallenta il tempo. Si procede in uno spazio verde come in uno stato di sogno che ricorda le immagini che Hillmann, nel suo ultimo libro, definisce la via verde, immanente alla psiche, per salvare la terra dalla catastrofe ecologica. L’impressione che ne deriva è che sia sospeso lo scorrere delle stagioni, in una immersione iniziatica nel colore delle origini, cullati dal canto del vento tra i pini. Il muschio, che ricopre gran parte del cammino, attenua i rumori, e il bacino per le abluzioni, posto rasoterra, richiede il gesto umile dell’accovacciarsi che evoca la sacralità del rituale. Attraverso due sentieri si giunge al padiglione del tè per una cerimonia che ha nella sua essenza la purificazione dei cinque sensi.
Le radici: paesaggio con bonsai dà il titolo alla seconda tappa del percorso. La visione delle radici affioranti dei ficus e delle mangrovie (grandi vene della terra simili a vecchi giganti dai corpi nodosi) richiede uno sguardo verso il basso, gesto che si fa umile e ricorda l’accovacciarsi per accostarsi al bacino per le abluzioni. Da queste radici l’artigiano bonsaista trae ispirazione quando modella un piccolo albero, soprattutto olmi cinesi e alberi dell’ombrello, rispettando i precetti degli antichi pittori raccolti ne Gli insegnamenti della pittura del giardino grande come un granello di senape. Anche in questo caso il rapporto tra la pittura monocroma a china guida la mano del bonsaista celebrando l’unione tra poesia, arte e natura. Lo sguardo del bonsai-ka si dirige “più in basso, sempre più in basso” per scoprire la geometria vivente degli alberi. E le radici si rivelano essere creature di passaggio tra la terra e il cielo, l’oscurità e la luce.
Il giardino dimenticato di Komatsu. È la terza tappa del viaggio iniziatico che ci conduce in un luogo segreto e nascosto dell’isola dove domina il muschio, sposo dell’ombra. Ci incamminiamo in uno spazio-tempo sospeso e distante che sembra precedere l’apparizione dell’uomo sulla terra. L’ombra, ora continua ora discontinua, muta di densità nell’aria immobile, sotto l’effetto della luce filtrante, manifestandosi come sostanza fluida che ancora una volta viene paragonata agli effetti della pittura ad inchiostro a china. Il lettore è immerso in un paesaggio crepuscolare sotto un tetto di nubi. Lo spaesamento che ne deriva ha a che fare con l’oblio e con l’abbandono in cui per lungo tempo il giardino si è ritrovato separato dal mondo.
Sul ciglio dell’Entsu-ji. Nell’ultima tappa del nostro percorso raggiungiamo il primo tempio buddista situato in uno dei giardini più belli a nord est di Kyoto, progettato con intento pittorico per incorniciare il monte Hiei. Si tratta di uno scenario preso in prestito (shakkei), artificio tipico della cultura giapponese con cui il giardino amplia i suoi confini spingendo altrove lo sguardo del visitatore fino a catturare la montagna, inglobando il lontano nel vicino, oltre il gruppo dei cedri. Anche in questo caso, il tratto di cielo che si apre tra i pilastri che sostengono la tenda del tempio, rimanda all’estetica del vuoto dei dipinti a china. La costruzione confonde il senso delle distanze, cosicché si percepiscono cose vicine anche se lontane, cose lontane anche se vicine. Nel suggestivo gioco dello sguardo, uno specchio d’acqua può catturare un pezzo di cielo mentre la lontananza spaziale del monte, al contempo, si fa portatrice di una distanza temporale. La visione ci trasporta lontano, nel luogo di nascita del buddhismo, dove i monaci dal ritorno dalla Cina fondarono il primo monastero all’inizio del IX secolo.
L’attenzione ai dettagli e all’infinitamente piccolo (col muschio si può esprimere tutto, si legge nel libro), l’incontro alchemico tra l’acqua, l’aria e il fuoco, evocato dalla cerimonia del tè, la musica del vento tra le canne di bambù; tutti questi elementi trascinano il lettore in un’atmosfera fiabesca, offrono un rifugio dalla frenesia della città, dirottando l’attenzione, tanto del viaggiatore quanto del lettore, al presente del qui e ora. Ci sono tante ombre in questi giardini come in Perfect days di Wenders. C’è la stessa ritualità presa a prestito dai ritmi della natura. E ci sono tanti mondi dentro lo stesso mondo anche qui, come dice Hirayama alla nipote Niko nel giardino del santuario. Per altra via. Anche nel volume 1 della saga Kill Bill di Quentin Tarantino, quando la leggera porta di legno e carta di riso scorre, si supera una soglia metafisica. Lo scenario cambia e appare un tranquillo giardino d’inverno dove, in un simile spazio simbolico rovesciato, la neve scende leggera e densa nel buio della notte. Il giardino, nel bellissimo libro di Véronique Brindeau, diventa strumento di conoscenza, cammino che porta alla visione dell’essenza, stato di estrema chiarezza, unione perfetta tra corpo e mente che realizza quella armonia alla quale da sempre tendono tutte le arti giapponesi.
NOTE :
Véronique Brindeau, già insegnante di storia della musica giapponese all’Institut National des Languages et Civilisation orientales di Parigi, è autrice di testi poetici su fiori, muschi e giardini giapponesi. Tra i suoi principali scritti sono stati tradotti in Italia “Louange des mousses”, dedicato all’ombra, e “Hanafuda, le jet des fleurs”, entrambi editi da Casadeilibri. Ha pubblicato diverse traduzioni dei racconti di Ikezawa Natsuki e una raccolta di poesie di Ogawa Shizue. I testi raccolti nel libro Il sentiero che porta alla casa del tè, nascono dalla collaborazione dell’autrice con la rivista Jardin, fondata da Marco Martella.
Foto in copertina di Benoit Cordonnier.
Brillante Massaro
Posted at 10:51h, 05 DicembreGrazie per questo bel viaggio.
Le parole hanno guidato i miei passi di lettrice lungo il sentiero che divide la casa del tè dai rumori della città, un cammino reso silenzioso dal muschio che ammutolisce i passi.
Un viaggio alla scoperta del fuori che diventa un viaggio alla scoperta del dentro.