08 Dic L’anima bucata
di Brillante Massaro
La sua anima si era bucata alle 18.35 di quel mercoledì ferito a morte mentre dal cielo pioveva piombo. Si era bucata, tra le urla ghiacciate di chi fuggiva alla malasorte e di chi cercava riparo proprio tra le macerie.
Lei era stata presa lì, tra quei corpi dolenti ancora in odore di vita che cercavano un riparo e vite spezzate che non ne avevano più bisogno. Era stata presa lì, mentre il giorno disperato si arrendeva e la notte era pronta a seppellire le grida nel buio.
Erano in tre, aveva sentito il loro odore di bestie in calore, la smania animale di chi cerca una dose supplementare di adrenalina per sopravvivere alla brutalità delle proprie azioni, di chi aspetta che il sangue si sciolga e continui a scorrere nelle vene gelate. Nelle mani la stessa furia di quando scagliano proiettili a raffiche per rubare le vite degli altri.
Non ci si ripara più dalla vita quando hai l’anima bucata.
Si era bucata alle 18,35 quando il primo corpo l’aveva spiaccicata a terra con la violenza di chi non concede scampo.
Si era bucata alle 18.35 quando la terra invece di sprofondare e ingoiarla aveva deciso di fare finta di niente. Aveva sentito la morte entrare nel suo corpo, con gli anfibi ai piedi, il fiato pesante e lo sguardo feroce di chi non ha pace. E il suo corpo diventa campo di battaglia, ma la morte non avanza, la schiva, lascia il posto ad una nuova vita bendata e smarrita.
Usurpato, violato, il corpo è terra di conquista. È nemico da combattere. La rabbia feroce dell’invasore si mescola all’eccitazione e fa leva sulla condivisione di gruppo. Cresce, si fa potente e complice. E la brutalità dormiente, quel desiderio selvaggio di annullamento dell’altro si desta e si arma.
Tre compagni, tre commilitoni in pausa tra una mitragliata e l’altra, tre ragazzotti di paese, uno ancora imberbe, alla prima esperienza al fronte, con gli anfibi nuovi, la mitragliatrice a tracolla e una sigaretta che penzola dalle labbra come Humphrey Bogart in Casablanca. Tre bravi ragazzi, di quelli che vanno a prendere il latte o che consegnano la posta ai vicini augurando loro il buongiorno. Ragazzi comuni, abituati ad eseguire gli ordini:
Arriva dal calzolaio all’angolo a ritirare scarpe.
Vai a prendere tua sorella a scuola.
Prepara i panini per la gita di domani.
Ragazzi non naturalmente inclini alla violenza.
Abituati all’obbedienza, addestrati a rispondere in modo sollecito ad uno stimolo che spegne ogni valutazione critica.
Stuprate le loro donne!
E il pene diventa un’arma.
Un’arma letale che trafigge e uccide senza uccidere. Meglio lasciare in vita i corpi saccheggiati, cammineranno per le strade, mangeranno, dormiranno, andranno a fare la spesa, al parco giochi con i futuri figli, assisteranno i padri malati, andranno in chiesa la domenica, e ovunque si porteranno dietro il marchio della sconfitta.
Si rifiuta la mente di obbedire, di rimanere intrappolata in quel corpo violato che non reagisce. E se ne va, lo lascia lì immobile, in balia di un destino che buca l’anima.
Non ci si ripara più dalla vita quando hai l’anima bucata.
Il suo corpo non lo sente più, lei è altrove, lo ha abbandonato lì, tra quelle macerie che puzzano di morte e lo guarda da fuori quel suo corpo stropicciato, le vesti stracciate, i capelli pieni di polvere e odio.
C’è una bambola di pezza con la testa mozzata poco distante, ha il corpo riverso su una mattonella spaccata ricoperta di sangue. Chissà quanto amore ha ricevuto nella sua vita precedente, com’è stata accarezzata e pettinata da piccole mani amorevoli, chissà quanta fatica far passare quel vestitino a fiori per una testa troppo grande. Avrà mai avuto un passeggino? E ora dov’è sepolto? E la bambina? Dov’è? È viva?
Le si stringe il cuore mentre si danno il cambio su di lei come una staffetta, pensa che quella bambina non sarebbe mai diventata grande, che non si sarebbe mai innamorata, che non avrebbe mai guardato un tramonto e non avrebbe mai assaporato nuove primavere.
Signore fa che sia salva.
Fa che in qualche modo qualcuno l’abbia soccorsa.
Allah regalale una nuova vita. Fallo per me. Sarà il mio pensiero felice, sopporterò meglio tutto questo.
Tutto ha un tempo, tutto finisce prima o poi. Arriva il momento in cui la foglia si stacca dall’albero, in cui le cose si scolorano, in cui il torace si solleva in un lungo respiro.
È compassionevole il tempo.
Gli anfibi si allontanano veloci, c’è da combattere ancora e ancora.
Allunga il braccio e afferra la bambola, le sistema la testa sul collo, le liscia i capelli crespi di polvere, le spazzola il vestitino con la mano, le drizza un braccio storto e se la stringe al petto.
La culla. Si culla.
Le canta, si canta, una ninna nanna, la stessa che sua madre Aanisa cantava a lei.
Chiude gli occhi.
Fuori la terra ancora trema di paura.
Ninna nanna bambina mia. Che tu possa vedere il mattino. Dormi serena non ci sarà la luna nera.
andrea giuntini
Posted at 14:31h, 08 DicembreBello il racconto, in un attimo ti trovi immerso nel bel mezzo di una scena di guerra. Sembra di essere là, ti chiedi se tutto questo accade davvero.