Lettera a mio nonno

di Giada Brocato

Caro nonno, come te la passi lassù? Qui da noi va così così e tante cose non sono a posto.
Mi viene molto difficile fare ordine, sposare un’idea, pensare con fiducia ai giorni futuri. Ancora più complicato è sentirmi parte di un intero, che sia l’Italia, l’Europa o la nostra parte di emisfero. Penso alle giornate della memoria, alle poesie sulla guerra, ai propositi di pace, e anche ai tuoi racconti: “Pupetta mia, lo sai che in guerra noi soldati avevamo le unghie deboli perché ci mancavano tutte le sostanze? E lo sai che ho scritto una lettera d’amore per un soldato che non sapeva scrivere?”.
Caro nonno, queste sono le ennesime guerre, però oggi i soldati hanno WhatsApp, una bella diavoleria che ti sei perso.
Ci avresti mai scommesso che i tuoi nipoti avrebbero corso il pericolo di una nuova guerra? Che avrebbero sperimentato, un’altra volta, la diffidenza, che guardando i propri figli avrebbero sperato unicamente che questo cielo resti limpido e questa terra intatta? Come in ogni guerra la gente comune è comunque in pericolo, comunque vittima, comunque in balia di chi gonfia i muscoli e mostra l’acciaio.
Caro nonno, le novità non sono quelle sperate, mi aspetto di tutto e non mi fido di nessuno, poi ogni tanto, fra sonno e veglia, penso a cose strane: cosa mi porterei appresso se fossimo d’un tratto nell’occhio del ciclone? e quale oggetto sfiorerei con le dita prima di lasciare casa? Fra i pensieri sminchiati e senza forma c’è pure la parola “iodio”, forse pillole, forse fiale, neanche so dove l’ho sentito, tempo fa ne parlavano nel caso di radioattività, dovesse mai essercene bisogno.
Sì, nonno, hai capito bene, vecchie storie e nuova follia: casca il mondo e muoiono altri bambini, tutti giù per terra come aquiloni senza filo. In terre non molto lontane dalla nostra ci sono morti tutti i giorni, morti visibili in tv, spezzati, sanguinanti, semplici e sbudellati come gatti schiacciati sull’asfalto. Da alcuni distolgo lo sguardo, su altri mi soffermo, osservandone i dettagli, la smorfia delle bocche, le unghie smaltate, un tatuaggio, la cerniera di un giubbotto, le scarpe impolverate. E mentre li guardo, penso che a questi corpi sono mancati il calore di un saluto, la tenerezza della mano che abbassa le palpebre e sistema i capelli scombinati. Penso che tutti i morti che ho visto in vita mia avevano le scarpe lucide e pulite sotto. Su alcune si leggeva addirittura il numero, tipo 38, 43, oppure vero cuoio. Delle tue ricordo le punte cucite a mano, i lacci neri e sottili annodati bene.
Penso anche che questi morti qui, diversamente da te, ancora camminano, sparano, mangiano un boccone in piedi fra un boato e l’altro, oppure guardano il proprio cellulare senza carica, senza minuti, senza giga. Penso che, come sempre, moriranno veramente solo quando chi li pensa smetterà di aspettarli o sperare che un giorno si facciano vivi. E penso che la morte, esattamente come la vita, può venire male, anzi malissimo, una specie di focaccia floscia o di ciambella oblunga, addirittura moscia, inutile come un verso imperfetto, una nota stonata, un abbraccio lento, un fiore finto o una pasta scotta.
Proprio così, caro nonno, anche per morire bene ci vuole tempo, sennò si resta sporchi e in mezzo ai piedi, metà uomini e metà gatti.
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