23 Dic Trame di nascita. In dialogo con Rosella Prezzo
a cura di Ivana Margarese
Trame di nascita. Tra miti, filosofie, immagini e racconti di Rosella Prezzo propone di “ricominciare dall’inizio” e riflettere sull’esperienza della gestazione e del parto/nascita facendo di questa origine il luogo relazionale e trasformativo della vita singolare e comunitaria.
La cancellazione della nascita, dell’inizio che è relazione, ha condotto a una cultura che si è illusa di poter affermare la vita negando la fragilità e la dipendenza reciproca.
Il testo, ricco di riferimenti filosofici e artistici, guarda alla nascita come la prima forma di trasformazione esistenziale e indica un altro modello di con-vivenza e azione in ambito etico e politico in cui è la relazione non la soggettività individuale a essere al centro. Se partiamo dalla relazione e dal corpo, partiamo da un concetto che si individua e diviene sé stesso grazie alla relazione. Peraltro il latino conceptus rimanda anzitutto a una forma concava che è capace di raccogliere e quindi al corrispettivo verbo concipio, che ha come significato originario quello di “rimanere gravida” e poi anche quello di “accogliere qualcosa nell’animo, nel pensiero, nel sentimento”. Da qui il significato di un concetto che anziché all’“afferrare”, “assoggettare”, rimanda piuttosto all’“accogliere”, “ospitare”. In questo senso, concepire non vuol dire appropriarsi di qualcosa, ma fare spazio a esso.
Comincerei col chiederti del titolo Trame di nascita dove la nascita lungo dall’essere un fatto singolare viene già inserita all’interno di una pluralità, le trame, sottolineando in questo modo la portata relazionale e “politica” di questo evento originario. Scrivi: “Interveniamo in una storia già iniziata, come entrando in un teatro, a sipario già levato, cercando nella semioscurità il nostro posto e sforzandoci di afferrare la trama che si sta svolgendo”. E ancora: “La nascita come evento è un agire trasformativo e trasfigurante, in cui si con-viene al mondo, nella originaria e comune non-autoctonia e non-autosufficienza”. Che ruolo ha la dimensione dell’attesa e dell’essere attesi nel nascere?
Premetto che, più che un libro sulla maternità, ho voluto scrivere un libro sulla nascita. Sull’evento cioè che riguarda ciascun essere umano, ci riguarda tutti/e: un duplice evento attraverso cui si è messi al mondo (passività) nel momento in cui si viene al mondo (azione attiva).
L’attenzione portata all’evento inaugurale (nella sua concretezza) della comune condizione umana mi ha permesso di formulare significati di senso e valori simbolici mai elaborati prima dal pensiero, che ha sempre privilegiato invece la morte come oggetto di meditazione, di senso e simbolo (già presente nella definizione stessa di “umani=i mortali”). Da qui: 1) l’origine umana è relazionale (non si nasce mai da soli); 2) nessuno possiede la propria origine, perché bisogna passare per un corpo altro (di una donna) per esistere (è perciò del tutto infondata e assurda l’idea che ci sia prima un Io autoctono); 3) Non siamo-gettati-nel-mondo, come ha affermato l’esistenzialismo heideggeriano, ma siamo sempre figli di un’attesa; 4) quindi, l’ospitalità precede la proprietà; 5) il nato/a è un ospite atteso, che però disattende l’attesa, perché chi arriva non è mai quello/a che ci si aspettava, che ci si immaginava che fosse; 5) il primo riconoscimento della madre verso il figlio è un riconoscimento di amore (“voglio che tu sia”) .
Tutte questi aspetti ridefiniscono la condizione umana sotto un’altra luce e indicano un altro modello di con-vivenza (hanno quindi una valenza anche etico-politica).
Il termine concetto, nell’etimo latino, ha infatti una costellazione semantica diversa dal tedesco Begriff che è prevalso a partire dalla filosofia classica tedesca. Se l’etimo di Begriff rinvia all’afferrare (greifen), il latino conceptus rimanda anzitutto a una forma concava che è capace di raccogliere e quindi al corrispettivo verbo concipio, che ha come significato originario quello di “rimanere gravida” e poi anche quello di “accogliere qualcosa nell’animo, nel pensiero, nel sentimento”. Da qui il significato di un concetto che anziché all’“afferrare”, “assoggettare”, rimanda piuttosto all’“accogliere”, “ospitare”. In questo senso, concepire non vuol dire appropriarsi di qualcosa, ma fare spazio a esso. Trovo questa riflessione all’interno del saggio assai preziosa per il discorso che svolgi. Mi piacerebbe una tua considerazione in merito.
Mi sembra già implicito in quanto dicevo prima.
Nel 1976 Adrienne Rich con Nato di donna tematizza il dato corporeo affermando che si nasce inevitabilmente da un corpo di donna. Rich mette tuttavia in guardia dalla maternità intesa come modello ideale fungente da esempio di altruismo e sacrificio, che fa scomparire l’esperienza della maternità nella sua complessità e contraddittorietà. La madre sublimata cancella la donna reale. Questo è un nodo centrale anche per gli innesti di pensiero e azione che porta con sé. Qual è la tua posizione alla luce dei dibattiti attuali? C’è una convergenza tra le considerazioni del tuo testo e quanto affermato da Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo nel loro Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa)?
E’ proprio indagando l’esperienza reale della nascita e della maternità che ne ho estratto significati differenti rispetto a quelli che la società patriarcale ha attribuito per secoli alla maternità come “destino” delle donne e loro confinamento nella vita privata, ma anche rispetto a certi miti regressivi della Grande Madre.
Per quanto riguarda il dibattito attuale, non mi piace l’atteggiamento diffuso per cui prima ci si schiera (come nel tifo calcistico) e poi si cercano argomenti a proprio favore. Compito del pensiero è cogliere i cambiamenti, fornire una lettura critica della realtà e certo, prendere anche una posizione di conseguenza. Uno dei temi oggetto di questi schieramenti è la presunta dicotomia tra il biologico e il culturale. Credo che nell’umano non ci sia niente di puramente biologico né, all’inverso, credo che siamo solo delle costruzioni culturali. Per es., il nutrirsi è qualcosa che riguarda il corpo ma quanti modi ci sono che danno al cibo e al consumare un pasto significati e ritualità simboliche differenti?
Sulla Gpa ho espresso le mie critiche perché penso che non abbia tanto a che fare con una libertà femminile conquistata ma che sia l’espressione di un sistema economico e di profitto in cui la produzione ha inglobato anche la riproduzione umana. Di conseguenza, ritengo che l’attuale dibattito sulla gravidanza per altri (soprattutto per altra, bisognerebbe sottolineare) sarà presto superato da una questione ben più grossa: l’utero artificiale. Nei processi “lavorativi”, infatti, come mostra la storia, a un certo punto le macchine sostituiscono il lavoro umano (anche quello che è diventato il “lavoro riproduttivo”). Non ho motivi per non pensare che sarà così anche in questo caso. Dovremmo perciò cominciare a rifletterci per non ritrovarci di fronte a situazione di fatto, da cui poi è difficile tornare indietro. Anche perché ciò andrebbe a intaccare quella differenza fondamentale per cui si diventa madre “all’interno” del proprio corpo, e padri “al di fuori” del proprio corpo.
Proseguendo il gioco di Cavarero e Guaraldo, potrei dire aggiungere “madre non si nasce, si diventa (e non sempre)”, e sulla base non solo della differenza di cui parlavo prima, ma anche sul fatto che per qualsiasi donna arriva sempre il momento della scelta di diventare o meno madre. Una scelta che per fortuna, grazie anche alle lotte delle donne, è una libera scelta (sappiamo pure che è sempre minacciata e quindi va difesa).
“La scena era occupata soprattutto da figlie in rivolta, che comprensibilmente non volevano essere come le loro madri oppure volevano dare all’autonomia femminile una legittimazione teorica attraverso una figurazione astratta della madre. Essa veniva allora scelta nella ricostruzione di una genealogia culturale e di pensiero (“le madri di tutte noi”), che si rivelava per altro ricca ed entusiasmante, al fine di riscattare il proprio genere dal silenzio della Storia”. Trovo che questa rivolta delle figlie, per quanto comprensibile e importante, sia anche una ferita o forse meglio una cicatrice che ha impedito a alcune di sperimentare le potenzialità plurali e sfaccettate della relazione con la madre, occultata talvolta anche dall’imperativo egualitario della sorellanza.
La lotta delle donne nata da un movimento di liberazione da stereotipi, ruoli codificati e differenze gerarchiche derivanti da un sistema di privilegio e dominio maschili, comprendeva necessariamente la profonda critica al modello di donna–madre come unica meta da raggiungere per essere una “vera donna”. Certo questo ha fatto passare in secondo piano il fatto di ripensare in altro modo la maternità ma soprattutto l’elemento comune agli esseri umani (uomini e donne) di venire al mondo attraverso un corpo di donna. Il richiamo alla “sorellanza” credo sia invece un elemento fondamentale, e ancora di più oggi, in una società dall’individualismo sfrenato e dove cui si ammantano dell’aggettivo femminista donne che hanno semplicemente acquisito potere, ma solo per sé. Hanno cioè sostituito un uomo nella medesima posizione di potere. Credo infine che ogni nuova generazione deve portare qualcosa di nuovo e di suo nel mondo in cui si trova a vivere e a pensare.
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