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06 Feb Quello che so di te. In dialogo con Nadia Terranova
a cura di Gianna Cannì e Ivana Margarese
“In quel momento, dentro quel preciso nulla, nell’isolamento dell’ospedale in cui ho appena partorito, capisco cosa non potrò mai più permettermi di fare. Impazzire”.
Questo assunto dà l’avvio alla narrazione, che vuole essere un modo per scavare nella propria storia alla ricerca del nesso follia/maternità: “A legare la maternità al manicomio è il fatto che tutte e due interrompono il racconto convenzionale della vita”. La cesura biografica determinata dalla maternità può essere ricomposta da una scrittura che accoglie l’intuizione, la visionarietà e il sogno. Venera – la bisnonna internata in manicomio in circostanze da accertare -, “una strega che non si muove dalla sua capanna, ma chiama a voce bassa…” è il passato che non passa e che al contempo si vuole trasformare.
Vorremmo partire da qui, da questo richiamo vertiginoso a un passato che a un certo punto si incarna, fino a diventare segno, macchia sul viso, per chiederti della metamorfosi che questo libro rappresenta.
Ivana: Quello che so di te restituisce anche una dimensione corale in cui ascoltare voci di altre donne, di altre scrittrici. Alcune le hai esplicitamente nominate come Fabrizia Ramondino, altre mi sembrano formare una base, uno strato genealogico impossibile da occultare. Mi piacerebbe sapere se questo tuo libro, oltre a raccontare una storia intima e privata, porta con sé questa eredità plurale.
Ti ringrazio molto di essere partita da qui, perché questo per me è il vero sostrato della storia : la pluralità di antenate, di contemporanee e di donne del futuro che ho alla lettera chiamato a raccolta, e che fanno parte di una genealogia non solo familiare. C’è un filo matrilineare di sangue e ce n’è uno invisibile, su un altro piano, della scrittura ma anche della vita che non si può esaurire solo nella famiglia. Le antenate per me sono le grandi scrittrici che hanno tracciato linee, da Virginia Woolf a Fabrizia Ramondino, esplicitamente citate, ma sono citate anche le contemporanee come Rachel Cusk, io credo che così si costruiscano le vere costellazioni.
Gianna: Nel romanzo ricostruisci una storia familiare di donne che cadono, che si perdono. Non si tratta però del disegno di un vero albero genealogico: in una pagina molto illuminante rispetto alla struttura della narrazione introduci il concetto di genogramma che si basa non su documenti ma su intuizioni e che va oltre i limiti del legame di sangue. Sarebbe interessante approfondire questo aspetto del tuo modo di lavorare con le antenate.
Il genogramma è l’insieme di intuizioni, ricordi, percezioni e legami di una persona riguardo alla propria famiglia. La sua creazione prevede un modo di procedere molto diverso dalla costruzione dell’albero genealogico perché non si fonda su documenti ma su ciò che di quella persona si è interiorizzato, e può comprendere anche non consanguinei come amanti o amici molto stretti. Il punto non è la verità, ma l’eredità dei non detti. Una bambina cresciuta come una sorella di un’altra, fatto frequente nelle famiglie di un tempo, fa parte del genogramma di chi ne ricorderà qualcosa, a dispetto dei certificati familiari che non ne recheranno traccia, e le sue vicende potranno influenzare tutto l’immaginario familiare.
Ivana: C’è un altro elemento apparentemente nascosto o comunque meno manifesto: la genealogia paterna. Questa storia però – tu lo scrivi – è anche una storia di padri. Padri da osservare con sospetto, ingombranti e contemporaneamente assenti, padri che si fatica a riconoscere immediatamente come benevoli anche quando lo sono. Che ruolo ha la fiducia anche rispetto o forse proprio rispetto a ciò che non si conosce come può essere il posto di un padre?
A volte mentre scrivevo mi sembrava di scoprire la paternità con occhi nuovi. Provavo tenerezza, a volte rabbia, spesso empatia. Quanti falsi miti abbiamo sui padri, e quanti devono smontarne loro stessi per essere autentici.
Ivana: Il corpo è fortemente presente nella tua scrittura negli inciampi, nelle cadute, nel contatto con chi si ama, nel rapporto con gli specchi, con i vestiti. Mi è venuto in mente La donna che trema di Siri Hustvedt dove il corpo della protagonista viene scosso da un incontrollabile tremore, spasmi così violenti che quasi la fanno cadere mentre legge un discorso in memoria del padre. Hustvedt dichiara : «Quando leggo un romanzo è come se lo vedessi [..] Quando scrivo un romanzo, vedo i personaggi che si muovono, parlano e agiscono, e li colloco sempre in stanze vere, case, edifici e strade che conosco e ricordo bene». Vorrei chiederti se in qualche modo è così anche per te.
Non potrei mai ambientare niente in un ambiente che non conosco benissimo, anche se devo inventarlo. Conosco quella sensazione fisica di totalità nel muovermi nello spazio, è da lei che torno ogni volta che sto scrivendo un romanzo.
Gianna e Ivana: Insieme alla ricerca/invenzione della propria storia – che in un certo senso è una ricerca di salvezza attraverso un movimento ascendente e verticale lungo la linea familiare femminile – si individua nella co-maternità la possibilità di uscire dallo speciale isolamento (“bozzolo di disperazione”) che la maternità porta con sé per affidarsi a “una pratica di sguardo reciproco”. Cos’è esattamente la co-madria, come si esprime?
È una pratica di relazione, come il femminismo. Individua nell’unicità della relazione il fine e il mezzo: le co-madri si raccontano la propria esperienza permettendo alle altre di attingere e sentirsi meno sole.
Gianna: Nel romanzo racconti anche l’avventura della costruzione del romanzo stesso, il gioco di rimandi, conferme, smentite tra la narrazione della Mitologia familiare, le informazioni che provengono dai documenti (“se fosse l’anamnesi a mentire?”, p.189) e le profezie della scrittura e del sogno. A p.112 scrivi: “La famiglia è la storia che ti racconti” e poco più avanti: “Ora so che la Mitologia ingannatrice di me stessa sono io” (p.146). Allora ti chiedo: quali forme di verità crea la scrittura? Vuoi commentare il passo in cui affermi che quando scrivi crei “forme di verità circoscritte da un limite, è il confine a renderle autentiche” (p.105)?
Forse perché sono nata su un’isola, sento che nel confine c’è la possibilità di una verità più profonda. Il confine del mare è netto, come i bordi della pagina.
Gianna e Ivana: Gesualdo Bufalino scrive in Saldi d’autunno a proposito dei siciliani : “Isole dentro l’isola: questo è appunto lo stemma della nostra solitudine, che vorrei con vocabolo inesistente definire ‘isolitudine’ […]. Se ne rilevano nel nostro carattere due eccessi di segno contrario: l’estroversa ospitale socialità, talora quasi servile, per antidoto dell’esser soli; e l’ombroso, omertoso riserbo, il claustrofilo rifiuto d’ogni contatto e colloquio”.
Vorremmo farti una domanda sulla Sicilia, sul suo portato di intensità tragiche per cui, per esempio, scrivi che “i siciliani non litigano, si offendono” come se la loro parola fosse del tutto impotente a sciogliere l’astio, o ancora: “la luce non dà requie, il buio non esiste, niente angoli né nascondigli, solo l’implacabile assedio del sole siciliano, un sole oppositivo, padronale”, e dunque che impedisce di sparire o di fuggire, di nascondersi alla verità. C’è anche un altro punto importante del romanzo, in cui tre aggettivi siciliani illuminano meglio delle parole della psicologia la condizione di Venera: scantata, scattiata, streusa. Infine riconduci alla sicilianità il senso della scrittura come creatrice di incantesimi: “Scrivere equivale a rompere un incantesimo, dicono – per me invece significa crearlo, una certezza che viene dal vento del Sud, dal fatto che sono nata su un’isola, un posto dove gli abitanti sono abituati a fabbricarsi da soli la merce che non sempre riesce ad arrivare, bufere e naufragi possono far affondare tutto prima dell’attracco” (p.105).
Forse è questo movimento stesso molto siciliano: ricondurre ogni cosa alla Sicilia. Come se ciò che nasce in Sicilia possa solo lì esistere, crescere e morire. Chissà poi se è vero, ma crederlo fa parte del gioco.
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