Il labirinto e il minotauro

di Elisabetta Imperato

 

“Sono nato alla fine di agosto del 1913 come creatura umana di sesso maschile”.

Con questo annuncio entriamo nella fisica della malinconia di Georgi Gospodinov. Siamo all’ingresso di un oscuro labirinto. Ma questo lo scopriremo solo strada facendo. Ci inoltriamo nel testo come in un viaggio iniziatico, dalla nascita (dalle nascite), alla morte (alle morti). Un percorso straniante che procede dal narrante io siamo all’io fummo. Con continue inversioni di rotta, cerchiamo un filo di Arianna che possa guidare il nostro cammino, ma i fili narrativi sono tanti e siamo disorientati dai corridoi che si diramano in ogni dove, senza alcuna bussola.

Al centro del labirinto, in un’atmosfera notturna, come se si sprofondasse in un sotterraneo interiore, incontriamo un minotauro. Non si tratta di un   minaccioso mostro ma della stessa proiezione di chi scrive, e che si ritrova bambino e abbandonato in una grotta buia. In una revisione del mito (ti odio Arianna, scrive Gospodinov), lo scrittore cerca di restituire la parola al minotauro che, al pari dell’infanzia, nella mitologia non ha voce. Nella trama intricata come la tela di un ragno, l’io narrante moltiplica se stesso entrando nella vita e nei ricordi degli altri, sdoppiandosi, annullando le distanze e addomesticando il tempo. In un esperimento mentale di stampo galileiano, duplica le vite altrui, esplora luoghi che si rimescolano insieme alle storie. La lingua diventa bifida. Passa dalla prima alla terza persona, vi entra e vi esce confondendo il lettore, invitato a percorrere un dedalo fatto di corridoi stretti e sotterranei bui: ora da personaggio interno delle sue storie, ora onnisciente dio della creazione letteraria e Signore onnipotente del tempo e delle formiche.

 

Un dio che atterra e suscita, salvando la vita dei piccoli esseri, per poi provocare su di loro un diluvio universale rovesciando una brocca d’acqua. La stessa brocca che iniziava a tracimare nei primi anni di vita mentre acqua, sale e farina impastavano il pane del dolore.  Come nelle fiabe mitologiche, anche qui tutto inizia con la nascita e finisce con la morte.  Ma nel mezzo, tra il venire al mondo e il tramontare, l’atto del narrare diventa, al pari delle Mille e una notte, un mezzo per salvarsi la vita, spostando la morte un po’ più in là. In questo mentre, tra l’alba e il tramonto, un panteismo diffuso intesse la trama: ora l’io narrante si identifica con lo stesso minotauro abbandonato nella cantina buia, ora si immedesima nella lumaca, medicina vivente del nonno che la ingurgitava per curare l’ulcera. Gospodinov segue addirittura il tragitto del mollusco, inoltrandosi nel labirinto dell’esofago e identificandosi tanto con l’esserino mangiato quanto con colui che lo mangia.

Dalla morte del nonno, centrale in tutta la narrazione, procede all’indietro verso l’infanzia e incontra più volte se stesso, sempre abbandonato nella cantina buia. In ogni inizio, scrive l’autore, c’è sempre un abbandono. Anche la storia del mondo potrebbe essere raccontata attraverso un catalogo degli abbandoni: dall’abbandono del minotauro nel labirinto a quello della piccola fiammiferaia e del piccolo Gesù. “Solo infanzia e morte, scrive, e nulla nel mezzo”. Il lettore deve smarrirsi nel labirinto, entrare empaticamente nelle storie raccontate, nei diversi tempi narrati in luoghi distanti. Quando Gospodinov cerca la voce del minotauro, assente in tutta la mitologia, la ritrova nel sillabare “maaaa” di mamma, invocazione colpevolmente tramandata come il muggito feroce del toro. Ma il toro non è cattivo. È vegetariano e non mangia gli uomini. È vittima innocente, mai colpevole.

 

In un gioco costante col tempo, l’io narrante confessa la sua mania per gli elenchi, per le tassonomie e per le capsule del tempo che lanciano messaggi ad un futuro post apocalittico che diventa presente e poi già passato. In una commistione continua, impasta generi come farina con acqua e sale perché il romanzo non è mai ariano. Lo afferma Gaustin, il suo alter ego. La sua scrittura ha sangue meticcio. Nasce dalla poesia per incontrare la prosa e la cronaca giornalistica, e all’inizio di tutto sono le iscrizioni sulle lapidi dei cimiteri che gli insegnano a leggere. Chissà se i nomi degli epitaffi, si chiede interrogando anche il lettore, saranno destinati a decomporsi insieme a i corpi.

Come in una pellicola di Vertov proiettata all’incontrario (che riporta in vita una mucca ripercorrendo il tragitto dalla macellazione alla rinascita), solo la lingua ha il potere di far resuscitare i morti. E ricomporre le storie di tutti gli esseri viventi. Anche degli animali vittime delle guerre, defunti sotto i bombardamenti. E avverte l’urgenza di ritirarsi in un universo letterario anti copernicano per ascoltare la voce dolente di pesci, libellule, bambù, orchidee e pietruzze. Raccontare il mondo attraverso gli occhi degli altri, senza trascurare nulla. Dall’organico all’inorganico.

Nella seconda parte del libro, trascorso il tempo della sindrome empatica dell’infanzia, l’autore è condannato a farsi mercante di storie per salvare cose e parole; accumulare memorie in casse, taccuini e quaderni, comprare addirittura il passato degli altri. Sempre insieme a Gaustin, che ritroveremo in Cronorifugio, anche lui è capace di attraversare i tempi come un fiume poco profondo. La scrittura opera così il salvataggio di frammenti di vite nella notte e nell’autunno del mondo.

Nell’ ultima pagina del libro, iniziato con “Sono nato alla fine di agosto del 1913 come creatura umana di sesso maschile”, dopo aver attraversato in lungo e in largo gran parte del secolo breve, leggiamo “Sono morto il 1° febbraio del 2026 come essere umano di sesso maschile […] Ricordo di esser morto come lumaca, rovo di rosa canina, pernice, ginkgo biloba, nuvola di giugno. […] Io fummo”. Queste le ultime parole del romanzo non romanzo. Anche la grammatica si piega al mimetismo linguistico di chi sa entrare nella vita degli altri. E come per il chiodo attribuito a Cechov, (se all’inizio di una storia si accenna a un chiodo piantato in una parete, alla fine il protagonista dovrà impiccarsi proprio a quel chiodo) la conclusione si riallaccia al tema iniziale ma riguarda un futuro che ancora non è. Quasi fosse un circolo di storie in cui ogni fine è un nuovo inizio. Un eterno ritorno nella storia del mondo che somiglia all’alternarsi eterno delle stagioni. E mi piace accogliere queste ultime battute come un suggerimento per il lettore, quasi un invito ad inoltrarsi nuovamente nei sentieri inesplorati della sua scrittura.

1 Comment
  • Katia Molinari
    Posted at 10:55h, 14 Marzo Rispondi

    Un libro meraviglioso. Appena letta l’ultima pagina ti viene voglia di ricominciare a leggere la prima. E quella lumaca che come dentro il corpo del nonno fa il suo viaggio così forse striscia silenziosa tra tutte le pagine del non romanza e la ritroviamo ancora viva nella cantina..

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