Fleur Jaeggy: in dialogo con Matteo Moca

a cura di Francesca Grispello

Ricordo il treno di tanti anni fa, ma non ne ricordo la meta, non c’è zaino che principia senza uno, due o tre libri; quella fu la volta de I beati anni del castigo di Fleur Jaeggy, ne parlavano in molti, ma sapevo poco, mi ammaliava il titolo beatitudine/castigo sono un incontro che brilla di microesplosioni.
Non mi accorsi quasi del viaggio, ho letto due volte quel testo, di fila, c’erano alcune immagini che non andavano via, luoghi, silenzi, spazi che si sono depositati nella mia disposizione al mondo e sono stati ingredienti imprescindibili per la mia sensibilità.
Italo Svevo edizioni pubblica per la collana Biblioteca di Letteratura Inutile, Una consunzione infinita di Matteo Moca, un saggio corposo, denso, curato e ipertestuale nato da una breccia aperta durante gli anni universitari dell’autore.


Cosa l’ha spinto, sostenuto e sorpreso nella ricerca su Fleur Jaeggy
La prima idea di questo libro risale forse, pur non essendosi ancora rivelata, nel momento in cui ho finito di leggere i libri di Jaeggy durante l’università: era rimasta in me un’inquietudine strana, non solo derivata dal tenore delle storie della scrittrice, quanto piuttosto da una sorta di urgenza interpretativa. Stavo studiando in quel periodo la mistica ebraica e una frase de Talmud, “tutti i canti si scrivono nero su bianco e bianco su nero”, mi risuonò in testa come se dovessi provare e seguire i pertugi di questi libri. Intuivo già quella distanza paradossale tra una scrittura concisa e gelida e gli abissi che questa apriva, una delle idee alla base del mio libro. Scrivere Una consunzione infinita è appunto un tentativo di riprendere una lettura antica e riprocessarla attraverso gli anni che sono passati.

Uno degli aspetti che emergono con forza dal suo saggio è l’importanza del silenzio, una scarificazione continua. Come interpreta questo elemento e quale ruolo svolge nella sua narrativa?
Il silenzio è un momento di straordinaria estasi, il momento in cui le cose si rivelano per la loro natura, un istante raro e prezioso, complesso da cogliere, ma ragguardevole per ciò che offre. Nell’opera di Jaeggy il silenzio ha un’importanza decisiva e un carattere multiforme: il silenzio è la morte, è il momento in cui i fili si riannodano, è l’attimo in cui un incontro condensa il senso dell’esistenza. Una delle scene in cui si arriva a questo cuore profondo dell’opera di Jaeggy è quando, nei Beati anni del castigo, la narratrice e Frédérique si rivedono. Quelle pagine sono commoventi per il misticismo che le abita, per il fatto che rappresentano lo sforzo inumano della parola per rivelare l’impronunciabile.

C’è un metabolismo narrativo che sembra accompagnare l’autrice: il nascondere e far emergere, l’incomunicabilità e una narrazione stratificata in cui chi legge si perde nelle profondità dell’animo umano al punto che la realtà non esiste se non in quelle profondità. Può aggiungere qualcosa in merito?
Nel libro prendo in esame un racconto di Jaeggy che si trova in Sono il fratello di XX e che si intitola Gatto perché in pochissime righe rivela l’andamento più segreto dell’opera di Jaeggy. Jaeggy parla di un concetto etologico, l’ubersprung, quel momento in cui il gatto ha catturato la sua vittima e per in un istante si distrae: lì spazio e tempo si annullano perché la vittima immagina una nuova libertà mentre in realtà è già morta. Sta in quell’istante, perfetto compimento di quell’ondeggiare tra presenza e assenza, tra rivelazione e nascondimento, una delle possibilità per provare a costeggiare il segreto di Jaeggy che offre una declinazione della realtà estremamente concreta eppure intangibile, proprio come le statue d’acqua dell’opera omonima.

Nel suo saggio, si analizzano i riferimenti letterari e autobiografici presenti nell’opera di Jaeggy, da Thomas Bernhard a Robert Walser, da Emily Dickinson a Samuel Beckett. La sua scrittura è un dialogo continuo con la tradizione letteraria, ma anche con la sua esperienza personale. Quali sono le principali direttrici che ha individuato e come si intrecciano con la sua esperienza personale?
Provare a seguire gli intrecci tra l’opera di Jaeggy e quella di altri autori ha avuto nell’economia del libro un duplice compito. Da un lato ha offerto l’occasione per trovare riscontri tra l’opera di Jaeggy e quella degli autori a lei cari, quelli che lei cita (come Walser per esempio) e quelli che non cita direttamente (è il caso di Anna Maria Ortese), e dall’altro invece è stato uno strumento per investigare il profilo di Adelphi attraverso una delle scrittrici più forti del suo catalogo come dimostrano i punti di contatto, biografici e teorici, con Ingeborg Bachmann, Elias Canetti o Marcel Schwob. Infine ovviamente ogni lettura critica è parziale, perché si nutre delle letture di chi scrive, e così ovviamente nel mio libro ci sono autori a me cari che per temi o posture ricordano Jaeggy o permettono di analizzarne le sue opere oppure che hanno educato il mio sguardo e quindi mi offrono una solida base ermeneutica (penso a Carlo Ginzburg, Mario Lavagetto e molti altri).

Come ha condotto la sua ricerca per individuare queste connessioni? Ha consultato archivi, corrispondenza o altre fonti?
Per questo lavoro in realtà mi sono immerso solo nei libri di Jaeggy: un’immersione da cui tornavo talvolta a recuperare ossigeno rifugiandomi tra gli autori di cui mi ero occupato in passato. Inoltre, obbedendo in questo anche alle direttrici della collana, Una consunzione infinita è chiaramente un libro su Jaeggy ma, nella mia idea, non doveva essere semplicemente un saggio critico, ma un esercizio di scrittura, di autobiografia critica. Per questo ci sono passaggi che possono apparire un po’ centrifughi rispetto all’opera di Jaeggy, ma questo rientra appunto nell’idea di un’indagine rabdomantica, che muovendosi tra spazi angusti e ristretti non vuole riconsegnare un intero unitario, quanto invece un patchwork di ispirazioni e letture.

Cosa è l’eleganza di uno stile?
È la possibilità e il coraggio di parlare di ciò su cui si dovrebbe tacere per l’incapacità della parole di descrivere, fino in fondo, chi siamo. Lo stile non si può separare da ciò che si dice.

Quali sono stati i passaggi che ha seguito per organizzare tutto il materiale che ha raccolto, per poi redigere il saggio?
Prima di cominciare a scrivere ho riletto, ancora, tutti libri di Jaeggy, anche le sue traduzioni, i suoi saggi e i pochi testi sparsi. Da lì ho selezionato un gruppo ristretto di pagine da cui partire in un processo di accrescimento interpretativo a partire da un nucleo ben preciso e circoscritto.

Se Jaeggy fosse un tema e un simbolo quali sarebbero?
Per usare un’immagine unica direi una luce accecante.

Cosa consiglierebbe a chi si avvicina ai testi di Fleur Jaeggy?
Di affondarci senza il desiderio di cercare nessun salvagente. Sono storie crudeli, vicende in cui Jaeggy rivela spesso l’insufficienza umana e l’incapacità di relazionarsi ma sono abitate nello stesso tempo da un’irresistibile ironia. Si racconta che Franz Kafka, mentre leggeva ad alta voce i suoi racconti non riuscisse a smettere di ridere, scatenando in chi lo osservava uno straniante cortocircuito tra le storie e la voce che le raccontava. Può succedere anche questo con le opere di Jaeggy e credo sia un dono inesauribile per qualsiasi lettore attento alle forme più alte e compiute della letteratura.

Come ha incontrato l’interesse di Italo Svevo Edizioni?
Io già conoscevo come lettore la collana “Biblioteca di letteratura inutile” diretta da Dario De Cristofaro (a sua volta discendente della “Piccola Biblioteca di letteratura inutile” diretta da Giovanni Nucci) composta da libri che coraggiosamente provano a forzare i confini del saggismo (oltre ad avere una stupenda veste grafica a opera di Maurizio Ceccato, le pagine intonse che rimandano alla lentezza della lettura e un forte gruppo di lavoro, come l’ufficio stampa di Roberta De Marchis). Quindi il primo approccio è quello del lettore che immagina che una collana che ammira possa dare dimora al suo libro: il resto del percorso è stato naturale e segnato dal dialogo continuo con Dario che ha subito accettato la mia proposta.

C’è un libro della Jaeggy a cui è più legato? Perché.
Sarebbe scontato rispondere I beati anni del castigo, ma in effetti è proprio questo. Da un lato perché si tratta del primo libro di Jaeggy che ho letto, dall’altro perché ogni pagina di quel libro, ma forse addirittura ogni parola, parla al lettore e rivela, a chi è paziente, i segreti della sua scrittura.


Un luogo

Capoliveri e l’Innamorata all’isola d’Elba
Un libro
Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust
Una casa
quella nella prima campagna dove viviamo
Un colore
Klein blu
Un verso
“Chi ha pensato le cose più profonde, ama ciò che è più vivo” (da Socrate e Alcibiade, Holderlin)
Un dono
Il tempo
Un brano musicale

Albert Ayler Trio, “Ghosts: First Variation”
Una parola
casa
Un pasto
cena d’estate
Una città
Parigi

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