18 Ott Azzorre. Intervista a Cecilia Giampaoli
Azzorre. Intervista a Cecilia Giampaoli
Immagini di Edith Snoek
a cura di Ivana Margarese
Inizio con il domandarti come è nato il titolo del tuo libro, Azzorre, che indica un luogo geografico ma non solo.
È bello quando il titolo emerge naturalmente, il più delle volte so come intitolerò un racconto prima di averlo finito. Con Azzorre è andata diversamente: avevo finito di scriverlo, ma niente titolo. Avevo solo l’idea di voler mettere in evidenza l’analogia fra il concetto di isola e la condizione interiore in cui vive chi affronta un viaggio in sé stesso: Io Sola Isola è stato a lungo il nome con cui mi sono riferita al diario e a tutto il flusso di pensieri e progetti che ne sono derivati. Ma avevo l’idea che fosse troppo “molle” rispetto allo stile di scrittura. Ne ho parlato davanti a un caffè con un amico scrittore, Jacopo Nacci -lo stesso che ha poi girato il manoscritto a Neo- «perché non lo chiami semplicemente Azzorre?», ha detto lui. Come saprai è l’editore ad avere l’ultima parola sul titolo, e gli editori della Neo erano più convinti di me che Azzorre fosse la scelta giusta, io avevo il timore che il libro scivolasse per errore sugli scaffali delle guide turistiche o cose del genere. Così ho spinto per avere in copertina un’immagine che suggerisse l’idea di un viaggio che non fosse solo geografico, ma anche interiore.
Il romanzo racconta di una ricerca intima e memoriale in un’isola, del ridare flusso a qualcosa che era rimasto bloccato in gola. E come spesso accade questo tipo di ricerca non è immediatamente comprensibile ad altri. Seppure proprio la presenza di questi altri ha reso in varia misura possibile questo tuo viaggio. Nel libro scrivi:
«Ascoltami, vai lassù, metti un fiore sulla lapide e torna a casa» dice.
«Capisco che ti sembri pazzesco» rispondo, «ma sai…» punto il dito sul tavolo in una mappa immaginaria «sono venuta dall’Italia fin qui per vedermela con questa storia. Nella mia vi- ta ci ho pensato centinaia di volte e le cose che ho immaginato non possono essere tanto meglio della verità»”. E ancora: “Fra le mail ce n’è una importante, è mia madre: non ti serve cercare tuo padre tra i documenti e le immagini di un archivio, non lo ritroverai in quei resti spezzati”.
Andare a Pico Alto, vedere e sentire quello che ho visto e sentito, non è stato tanto difficile quanto sostenere per sei anni (tanto ci è voluto perché trovassi un editore) lo sguardo dei parenti e degli amici che mi hanno vista restare così a lungo su questa storia: «Sei stata là, hai messo fiori sulla lapide, ora vai in copisteria, stampa quello che hai scritto in dieci copie e fai pace con la morte di tuo padre».
Ho apprezzato molto il tuo modo di raccontare la bellezza femminile. Teresa che è intelligente, indipendente e sa di esserlo, si capisce da come muove le mani. Costança che è bella nel modo in cui sono belle le persone che sanno vivere la propria vita. La delicatezza di tua sorella Anna, l’onestà disarmante di Ines.
La femminilità c’entra. L’isola di Santa Maria, con questo nome così simbolico, ha essa stessa un’energia molto femminile. Ha una configurazione forte e gentile: prati e colline in balia del mare.
Poi c’è la storia di Savitri, quando ho letto le poche pagine del libro che mi aveva consegnato mia madre prima di partire, non le ho capite. Savitri affronta il dio della morte e ottiene il ritorno in vita dello sposo che lei stessa ha scelto dopo essere stata spinta dal padre a cercarlo viaggiando per il mondo.
Viaggiare mi ha aiutata a definire il modo in cui voglio essere donna. C’è una forma di vulnerabilità in una donna che viaggia da sola che, paradossalmente, la mette in condizione di andare più lontano, di entrare maggiormente in profondità nelle relazioni: nessuno si sente intimorito da una ragazza lontana da casa con uno zaino in spalla. Prima di questo, un altro viaggio è stato particolarmente importante. Ero sola come si è soli in piena notte, su un autobus a un migliaio di chilometri da casa, pieno di gente addormentata che se anche fosse sveglia non parlerebbe la tua lingua. Sono stata pesantemente importunata da un uomo, ma ho visto in quello che stava succedendo l’evidenza della sua debolezza, e questo mi ha fatto sentire al riparo da qualsiasi ripercussione psicologica. In quel momento ho capito che da sola potevo spingermi lontano.
Sembra quasi che l’isola sia un labirinto dove si ritrovano e si perdono pezzi della storia e anche quando sembrerebbe che si è trovato un filo, il filo unico si disperde in tanti fili. La verità resta imperfetta e come tu stessa scrivi :
“La verità non è importante quanto il modo in cui scelgo di vivere le cose.”
Un incidente aereo è un evento gravissimo che colpisce chi muore e chi resta, e coinvolge le responsabilità di molte parti: la compagnia aerea, l’aeroporto, ogni singolo membro dell’equipaggio, i controllori, i tecnici delle apparecchiature di controllo e di volo… È un evento gravissimo anche da un punto di vista legale ed economico. L’idea che mi sono fatta è che, una volta ricostruiti i fatti (fin dove è possibile farlo), le parti si siedano a un tavolo e decidano come smaltire la faccenda. Non voglio dire che quello che è stata appurato dalle indagini non sia successo, ma che per chiudere il faldone di un evento del genere sia necessario semplificare in forma scritta una verità che è per sua natura molto più complessa e sfuggente. L’isola è molto piccola. Gli isolani si sono trovati a non potersi allontanare per più di qualche chilometro dal luogo dell’incidente. Lo scenario stesso è entrato con violenza nelle loro vite. Ognuno di loro si è fatto un’idea dell’accaduto ricostruendo i fatti come poteva. Tutte queste storie hanno fatto eco fra la montagna e le pareti bianche delle case fino al mio arrivo sull’isola.
“Quando ero piccola ho pensato molte volte che potesse tornare. Lo immaginavo arrivare sotto casa e suonare il campanello: «Ehi, aprite, sono io! Era solo uno scherzo!» In fondo, io al funerale non c’ero e anche se ci fossi stata, se avessi visto la bara, non avrei mica potuto alzarmi davanti a Don Franco e chiedergli di guardarci dentro. Insomma, a lungo ho pensato che, forse, proprio morto non era.
Qualcosa di quella bambinesca aspettativa svanisce solo ora”.
Ho trovato questo passaggio assai onesto e bello perché tutti da bambini immagino facendo esperienza della morte abbiamo creduto possibile fosse solo uno scherzo amaro, un equivoco, qualcosa che potesse essere riparato.
Ho avuto un bambino lo scorso luglio, è la prima volta che mi confronto con l’idea della perdita vedendo la cosa dall’altro lato. Mi guarda negli occhi con una fiducia che nessuno può davvero dire di meritare. Non posso promettergli che ci sarò sempre, posso solo ricordarmi di dare valore al tempo che passiamo insieme. Oggi riesco a immaginare cosa deve aver provato mio padre se ha avuto tempo -una frazione di secondo- per capire che non sarebbe tornato da noi.
Alla fine del libro ho trovato tre elementi generosi, di restituzione: c’è una tua foto privata con tuo padre e i tanti ringraziamenti e le scuse alle persone che hanno perso qualcuno nell’incidente delle Azzorre, per aver raccontato senza filtri una storia che non è soltanto tua.
In questi mesi mi sono abituata a vedere la mia faccia in libreria e a leggere recensioni che parlano della mia storia. Quando ho chiuso il mio libro l’ho fatto cosciente che l’avrei consegnato a chiunque avesse voluto leggerlo. Quello che ho scritto è quello che volevo dire e dare di me. Ci sono però due elementi nel libro per i quali provo un senso di pudore, due cose che ho messo lì e che ancora vorrei proteggere: il nome di mio padre e la sua foto. Non mi sono pentita, credo che la foto sia un elemento importante che contribuisce a mantenere il romanzo nella dimensione del reale, tuttavia mi procura un moto di imbarazzo, mi fa sentire nuda. Il dolore è qualcosa di molto comune, tutti ne facciamo esperienza e in virtù di questo la mia storia può appartenere a chi legge per il tempo che occorre a chiudere il libro: il nome di mio padre e la sua identità fisica, invece, ricacciano a forza tutti quei sentimenti esattamente al loro posto: dentro di me.
Biografia
Cecilia Maria Giampaoli, Urbino 1982. Vive e lavora a Pesaro. Si occupa di arti visive e usa la scrittura come un mezzo di ripresa – interessata al potenziale figurativo delle parole. Dal 2011 insegna all’ISIA di Urbino. Nel 2015 un suo racconto, Pelle di Merluzzo, riceve il Premio Eccellenza Treccani Web. Suo il
blog di racconti www.diaridiunmarinaio.com. Azzorre è il suo primo romanzo.
Mariella Oliveri
Posted at 17:26h, 19 OttobreCorro a comprarlo .
Ivana
Posted at 17:28h, 19 OttobreÈ certamente un libro che vale la pena leggere.