13 Nov Il cortile – Parte seconda
Il cortile
racconto inedito di Eva Luna Mascolino
PARTE SECONDA
Io arrivai nove mesi dopo e sono rimasto fino a oggi il loro unico figlio, perché mia madre non riuscì a portare a termine nessuna delle tre gravidanze che seguirono. Nacqui in una casa abbellita dalla complicità dei miei genitori, che si erano divisi spazi, mansioni, poteri e libertà in modo maniacale. Fortuna si rivelò oltre ogni previsione la donna che Eugenio avrebbe sperato, perché era anche amante dell’ordine e della buona cucina, oltre che praticante del buonumore. Il suo carattere conciliante portò mio padre ad ammirarla ogni giorno di più, a coprirla di attenzioni e a condividere con lei angosce, desideri e riflessioni di ogni sorta.
Crescere un bambino, però, diede loro del filo da torcere dal punto di vista economico e pratico. Mio padre non era mai stato uno squattrinato, ma neppure un miliardario. Quando la Borsa gli era sfavorevole tendeva a indebitarsi, e nonostante questo Fortuna lo incoraggiava di volta in volta, mentre si occupava di allattarmi e poi di insegnarmi a lavarmi da solo, a mangiare con forchetta e coltello, a vestirmi, a ripetere l’alfabeto, i codici di legge e le preghiere di mia nonna Tildy. Passai i primi sei anni della mia esistenza circondato da affetto e allegria.
A dispetto degli stenti non vidi mai litigare mio padre e mia madre, se non quando, poco prima del mio settimo compleanno, morì mio nonno materno. I medici gli avevano pronosticato una vita ben più breve, ma lui caparbio com’era, resistette quasi sei anni in più. Le esequie furono celebrate con discrezione. Mia madre e mia nonna lo vestirono di tutto punto e lo seppellirono con le loro mani, mentre mio padre inventava per me i giochi più originali durante il congedo di tre giorni.
Quando mia madre rincasò, però, io ebbi la malaugurata idea di chiederle notizie del nonno: dov’era andato? Quando avrei potuto fargli visita? Sarebbe mai tornato per portarmi le caramelle? Mia madre guardò mio padre e gli disse:
«Avremmo dovuto farlo assistere, hai visto? Non capirà fino in fondo, perché non c’era.»
Mio padre si allontanò con uno scatto nervoso. Lei continuò a parlare, urlandogli dietro che suo figlio Pedro non era né un vigliacco né un bambino come gli altri, e che avrebbe avuto il diritto di salutare l’unico nonno che gli rimasto, anche solo per piangere sulla sua tomba e capire negli anni il senso di quell’abbandono. Gli disse che non avrei mai accettato la morte, se non l’avessi affrontata attraverso il destino degli altri, e che sarebbe stato meglio iniziarmi a questo processo il prima possibile.
«Per colpa tua crescerà sperduto e ignorante come la maggior parte di quelli della sua generazione», sentenziò raggiungendo mio padre in cucina.
Si sbagliava di grosso, però. Perché io fui innanzitutto testimone della morte del loro amore, ossia della sofferenza più straziante che abbia conosciuto finora. Eugenio Madras picchiò mia madre senza quasi accorgersene, poi le si buttò ai piedi implorando il suo perdono in mezzo ai deliri e perse i sensi poco dopo, quando lei era già scappata in strada a chiamare aiuto.
Venne ricoverata per due giorni, giusto il tempo di farsi medicare le guance e l’attaccatura dei capelli, e mio padre non mi accompagnò a trovarla. Aspettammo che mettesse di nuovo piede in casa per farla sentire nuovamente amata di due amori molto diversi fra loro, ma Fortuna Torres non era una donna in grado di tollerare la violenza.
Gli continuò a piegare per bene le camicie, gli faceva trovare ancora pronto a tavola, faceva l’amore e il bagno con lui e gli sorrideva quando andavano al mercato, eppure cominciò a covare un astio di cui io ero il solo ad avvedermi. Mio padre si convinse quasi subito che la moglie avesse archiviato quel triste episodio e si dedicò anima e corpo a salvare un sentimento che io vedevo inaridire di ora in ora, senza che uno sguardo o un movimento di sua moglie gliene rivelassero il dramma. L’unica conseguenza tangibile dell’accaduto fu la una certa familiarizzazione da parte mia con il linguaggio dei segni e delle emozioni, che nel corso degli anni mi è poi tornata utile.
Proprio come aveva predetto mia madre, comunque, l’incontro con la morte mi marchiò. Diventai schivo e diffidente, attratto da qualsiasi suono, profumo, oggetto o corpo intorno a me, ma disposto a conoscerlo solo attraverso la mia arte, della quale non facevo partecipe nessuno a eccezione di Ingrid Solares.
Ingrid era una creatura spaurita e gracile, con fili d’argento per capelli e occhi più larghi della norma. Avevamo frequentato l’asilo insieme e, da quando mi aveva notato, lei non aveva più voluto separarsi da me, pretendendo di passare con me almeno un pomeriggio alla settimana. Io, che non avevo amici durante l’adolescenza, sopportavo il fruscio delle sue gonne in camera mia quando leggevo la raccolta di qualche poeta, quando mi esercitavo a dipingere o quando aggiornavo l’elenco delle farfalle che avevo catturato, perché Ingrid non si lamentava della mia indifferenza né osava rivolgermi la parola.
Aveva paura dei miei malumori, ma piangeva di nascosto se io piangevo, rideva di nascosto se io ridevo e si struggeva se io mi graffiavo in giardino. Sembrava non accorgersi del fatto che per me era come se lei non esistesse e che la sua presenza non mi scomponeva né incuriosiva – in effetti, iniziai a curarmi di lei soltanto dai sedici anni in poi, quando i suoi tratti mi suggerirono per la prima volta di renderla compagna del mio gioco più bello. Fu così che senza preavviso, quando raggiunse come sempre la mia stanza per spiarmi in silenzio fino all’imbrunire, andai io ad aprirle alla porta e le domandai se le sarebbe piaciuto posare come modella per un ritratto.
Lei, impallidita e spaventata dal mio entusiasmo, non svenne per un pelo. La portai in soggiorno, la feci distendere sul divano e le offrii da bere. Poi le ripetei con calma la domanda.
A quel tempo avevo già trasformato la mia camera in un vero e proprio studiolo, le cui pareti erano tutte rosse. Quando la mia famiglia entrava, esclamava sempre: Diamine! Come fai a vivere in un posto così?
Ci ho fatto l’abitudine.
Ma non ti impazziscono gli occhi?
Ci ho fatto l’abitudine. Le tele sono tutte bianche e dentro ci stanno colori a non finire: che volete che me ne importi delle pareti rosse?
In realtà non avevo mai dipinto niente di rosso, neanche gli occhi di un toro o le vene di un Cristo in croce. Non che mi sarebbe dispiaciuto, ma non volevo che il rosso sporcasse pure la tela, oltre allo spazio che le gravitava intorno. I miei compagni di scuola non apprezzavano granché le mie opere. Solo a me potevano piacere, dicevano i miei genitori stessi. Secondo me avevano solo dei pregiudizi per via delle pareti, per le quali tra parentesi mi ero lasciato ispirare da certi Caravaggio.
L’ispirazione a quest’ultimo, ad ogni modo, ha finito per rovinarmi. Per spiegare in che maniera bisognerà però che torni a parlare di Ingrid, che all’epoca diventò il mio tramite con la realtà, la dolce sinapsi fra me e chi mal tollerava il rosso del mio studio.
Quando nel mio soggiorno le domandai per la seconda volta di posare per un ritratto, lei dilatò le palpebre, ansimò un poco e poi ribatté:
«Dice sul serio?»
A deliziarmi non fu tanto il suo tono, quanto quel lei. Mi fece sorridere e mi riscaldò il cuore: qualcuno mostrava di avere rispetto per me, qualcuno mi trattava con riguardo.
«Certo! Anche se prima dovrei avere il tempo di conoscerti, di… di scegliere.»
«Di scegliere cosa?»
«Di scegliere per quale ritratto sceglierti.»
«Giusto.»
«Dovresti restare immobile per ore, in silenzio.»
«A questo sono abituata.»
«Potrebbe cambiare qualcosa del tuo corpo, sulla tela.»
«Lo so.»
«E magari ti chiederò di aprire le gambe, o di alzare le braccia.»
«Certo.»
Le sue risposte non avevano l’aria di essere un rifiuto, così mi feci coraggio e continuai:
«Quindi saresti disposta a farlo?»
«Lei sarebbe disposto a farmi del male?», chiese Ingrid di rimando.
«No», balbettai.
«A toccarmi o ad avvicinarsi più del necessario?»
«No, certo che no.»
«Allora sono disposta.»
Io faticai a crederle: prima di allora non ci eravamo quasi rivolti la parola, né io avevo premeditato di diventarle amico. Tuttavia, l’idea di farla posare per me mi aveva folgorato con una tale impertinenza da indurmi ora a oltrepassare la linea di frontiera che avevo costruito fra me e lei. E Ingrid lo stava accettando di buon grado. Me ne rallegrai non poco, perché dopotutto lei aveva la mia età e sopportava il mio carattere, mentre io sapevo di avere un certo ascendente su di lei, cosa che avrebbe potuto facilmente divertirmi.
Lì per lì non mi preoccupai di sapere come mai avesse accettato. Mi limitai a chiederle, come ogni pittore che si rispetti e nonostante la mia giovane età, quanto sarebbe stata disposta a pagarmi a lavoro ultimato.
«Dipenderà dal risultato», mi disse Ingrid.
«In che senso?», le chiesi.
«Se il quadro mi piacerà, la pagherò. Lo considererò un regalo. Se dovessi trovarlo volgare, bugiardo o finto, toccherà a lei indebitarsi.»
«Finto?»
«Sì. Perché voglio che sembri un corpo vero, di una donna vera.»
Feci una sorta di smorfia, pur ammirando la sua chiarezza di idee.
«Tu non sei ancora una donna, però.»
«E con questo?»
«No, niente.»
Ci fu una pausa carica di imbarazzo. Infine, ripresi:
«Quindi siamo d’accordo? O c’è dell’altro?»
«C’è dell’altro», annunciò lei con tono fermo.
«Dimmi.»
«Voglio che lei usi il rosso.»
«Il rosso?» sobbalzai.
«Il rosso. Per le labbra, per le guance, per qualche sfumatura dei capelli. Del resto non mi importa, scelga tutto lei. Ma io, per le mie labbra, voglio il rosso.»
«Impossibile», farfugliai, in preda alla confusione e alla sorpresa. «Io non ho mai dipinto niente di rosso.»
«Lo so.»
«E non ho intenzione di fare eccezioni.»
«Lo so.»
«E quindi?»
«Le toccherà fare qualcosa.»
La sua saccenteria mi avrebbe spinto a lasciarla in soggiorno e a ritirarmi in camera mia, se, in quel momento, lei non mi avesse sorriso. Lo fece con la stessa meccanicità di una serratura, quando scatta grazie alla chiave giusta. Con un solo movimento, come se fosse stata pronta da anni. Allora le intimai per prima cosa di darmi del tu. Poi la aiutai ad alzarsi dal divano e tornammo insieme nella mia stanza. Presi tavolozza e pennelli, mi avvicinai al cavalletto e chiusi gli occhi. Fra quali profumi avrei trasportato il suo corpo? Vicino a quale luce? Non feci in tempo a pensare a niente che Ingrid mi interruppe.
«Lo conosce il portoghese?»
«Preferirei che non parlassi, Ingrid. E ti ho appena detto di darmi del tu.»
«Come vuoi.»
Pausa.
«Ma il portoghese lo conosci?»
«Non è il momento di parlarne.»
«Perché?»
«Parlare mi distrae.»
«Ma a me annoia stare zitta.»
«Era una delle clausole del nostro patto», le feci notare.
«Ho cambiato idea», mormorò lei con candore.
Sbattei il pennello sulla tavolozza. «Ingrid, per l’ultima volta, fa’ in silenzio.»
«E tu usa il rosso per le mie labbra.»
«Cosa? Neanche per sogno.»
«Se è così, io non chiuderò bocca e ti impedirò di dipingermela. Preferisco essere disegnata senza labbra che averle di un colore diverso dal rosso.»
Mi sembrò irremovibile, ma io non fui da meno. Continuò a blaterare e io continuai a squadrarla. I giorni trascorsero in fila indiana, rotolando verso il caldo dell’estate. Dopo le prime settimane conoscevo a memoria i gesti delle sue mani e lei le rughe della mia fronte. Non stavo dipingendo ancora molto, a parte qualche accenno dei suoi lineamenti, però in compenso prendemmo l’abitudine di chiacchierare in due. Scoprii che Ingrid era uno spirito libero, molto simile a mia madre e alla madre di mia madre, ma più timida, meno consapevole dell’ascendente che avrebbe potuto esercitare su chi la circondava. E la complicità esclusiva che ben presto si creò tra di noi, grazie allo strambo progetto di trasformare il suo corpo in un misto di colori ad olio, fu miracolosa.
Una volta si mise a parlarmi della sua passione per gli scacchi.
«Ha un che di divino, quel gioco», mi disse. «Lo inventarono i persiani, lo sapevi?»
«A essere sincero, no.»
«Mi ricorda un po’ la lotta fra il bene e il male, o fra il tutto e il niente. Le vite umane potrebbero essere rappresentate tutte da una partita a scacchi, mi credi? Ci basterebbe una scacchiera per capire il percorso che compiamo di giorno in giorno, mentre siamo prigionieri di un meccanismo di cui ci crediamo i padroni.»
«Può darsi», commentai con cautela.
«E il fascino del gioco non sta tanto nel suo congegno, quanto nel fatto i pezzi a disposizione sono gli stessi in ogni parte del mondo.»
«Questo è vero», riconobbi.
«È solo che ognuno di noi sceglie di utilizzarli come preferisce, ecco. Ci immedesimiamo in una torre, o in un pedone, e costruiamo una strategia intorno al nostro pezzo di riferimento. È per questo che le nostre mosse finiscono per assomigliare a quelle contorte di un cavallo, a quelle impulsive di un alfiere o a quelle vigliacche di un re.»
Si interruppe per un paio di secondi, poi riprese:
«Un’altra cosa eccezionale consiste nel fatto che nessuno può prevedere come finirà la propria partita, perché non si gioca mai da soli con la propria tattica. Bisogna considerare le mosse dell’avversario e non si ha a stento il tempo di sbagliare… Sono un gioco inclemente, gli scacchi, se capisci cosa voglio dire.»
«Credo di avere capito cosa intendi», fu la mia risposta. «Non si esce vivi da una partita.»
Fu nello stesso pomeriggio di fine estate che ci venne un’idea, anzi, l’Idea. L’idea che ci avrebbe fatti innamorare. Erano passati trentasette giorni dalla fatidica giornata in cui le avevo proposto di posare per un ritratto e finalmente le comunicai che avevo preso una decisione concreta: l’avrei dipinta in un bosco, vicino al legno di qualche albero dalla forma strana. Lei mi rispose che conosceva una pineta nei pressi della città, dove era stata con la famiglia qualche mese prima. Ci cui ci demmo appuntamento l’indomani dopo pranzo all’angolo di casa mia, con uno zaino ciascuno sulle spalle.
Impiegammo quasi due ore per arrivare a destinazione, poi scegliemmo una posizione comoda e favorita dalla luce e, quando io imbracciai tavolozza e pennelli, il sole stava già tramontando. Delusi dal nostro scarso tempismo, ci convincemmo a restare per la notte e a rimetterci all’opera l’indomani di buon’ora. Avevamo detto ai nostri genitori che eravamo l’uno a casa dell’altra, con un po’ di fortuna non si sarebbero preoccupati più di tanto.
Inizialmente la situazione ci entusiasmò, e ci spinse a camuffare la fame accendendo un piccolo falò con delle foglie secche. Dopo il sorgere della luna, però, il fuoco si spense assieme al nostro buonumore. Cominciammo ad avere paura – non tanto del buio, no, e neppure del freddo. Avevamo paura di un silenzio nuovo, che si stava insinuando tra di noi facendoci rabbrividire mentre Ingrid accostava il suo corpo al mio.
Il resto accadde cinque giorni dopo. Ingrid si era fatta più rigida nel portamento, quasi più altera, ma anche più femminile. Chiunque avesse trascorso cinque minuti con lei lo avrebbe notato. Io, invece, ero più spigliato e a scuola avevo strappato per un pelo un voto decente alla verifica di storia. Mio padre entrò nella mia camera senza bussare. Era appena tornato dal lavoro e disse che voleva parlarmi a quattr’occhi, lì e subito.
Non opposi nessuna resistenza. Restai seduto sul letto, incrociai le gambe come avrebbe fatto un bravo pellerossa e gli domandai:
«Di che si tratta?»
Lui optò per una linea piuttosto morbida.
«Da quanto tempo conosci Ingrid, ragazzo?»
«Da quando andavamo all’asilo insieme», risposi con calma, convinto che non avevo di che preoccuparmi.
«E vi parlate da tanti anni?»
«In realtà no. Mi viene a trovare da quando eravamo bambini, lo sai, però non ci eravamo mai rivolti la parola prima del mese scorso.»
«Capisco», disse annuendo lentamente. «Perciò sei stato molto bravo.»
«In cosa?»
«In un mese sei stato capace di farle il lavaggio del cervello e di farla venire a letto con te, per di più mentre eravate lontani da casa. Complimenti.»
Era diventato tagliente, rancoroso, inquieto.
«Non le ho fatto alcun lavaggio del cervello» mi difesi.
«Ah, no?»
«No.»
«E come spieghi il fatto che abbia perso la verginità con te, in quel bosco?»
«Chi te l’ha detto?», gridai quasi.
«Lo sanno tutti, Pedro.»
«Tutti chi?»
«Tutti.»
«Tutti tranne me, allora.»
Un’arteria iniziò a pulsare paurosamente sulla fronte di mio padre.
«Oseresti negarlo?»
Scrollai le spalle, dissimulando un’indifferenza e una freddezza che proprio non avevo.
«L’hai ricattata, ammettilo.»
«Io non ho ricattato proprio nessuno.»
«Forse ricattata no, ma sedotta sì.»
«Non è vero!»
«Le avrai stuzzicato la fantasia con chissà quali promesse…»
«Non è vero!»
Mi sentivo febbricitante. L’uomo che chiamavo padre mi stava accusando di azioni che non avrei compiuto neanche sotto tortura. Non sapeva niente del meccanismo di reciproca protezione che si era creato fra Ingrid e me. Non sapeva che le nostre energie erano state incanalate in un unico fiume, che scorreva già impetuoso in direzione del mare. Non sapeva del significato del nostro contatto fisico, oltretutto così innocente. E non sapeva che Ingrid si era convinta di essere inscritta nella linea del destino della mia mano sinistra.
«Avrai approfittato di lei in un momento di debolezza, quando non c’era nessuno ad aiutarla.»
«Ma io…»
«E magari ora avrai intenzione di sparire, dopo averla rovinata.»
«Come puoi pensare questo? Io amo Ingrid e anche lei mi ama!», urlai allora, senza riuscire a trattenere le lacrime. «Anzi, se proprio non mi credi, sai che ti dico?»
«Che cosa?»
«Oggi stesso chiederò la sua mano e, prima della fine dell’anno, io e lei saremo marito e moglie», annunciai solennemente, alzandomi dal letto.
Mio padre cambiò di colpo espressione. Allargò le braccia, sorrise con tutto il viso e avanzò verso di me. Io rimasi dov’ero e lo vidi ridacchiare.
«Sei proprio un bravo figliolo, sai?», disse con voce nuova. «Ti chiedo scusa per averti teso questa trappola, Pedro.»
«Di che stai parlando?», ringhiai, allontanandomi.
Senza smettere di sorridere, mio padre mi spiegò:
«Volevo portarti a una scelta definitiva, nel bene o nel male che fosse. Sono contento di sapere che ti sei innamorato di Ingrid e che lei ricambia i tuoi sentimenti: non sai quanto tu sia fortunato, figlio mio.»
Mi accarezzò i capelli e mi diede un colpetto sulla nuca, prima di bofonchiare qualcosa e di uscire dalla stanza a lunghi passi, senza darmi il tempo di riprendermi. Ripiombai sul letto e mi coprii la faccia con le mani. Mi girava la testa e non ero quasi in grado di ricostruire la quella conversazione. Quindi mio padre mi aveva preso in giro? Non era arrabbiato con me? Non mi disprezzava? Non mi avrebbe punito? Non ero neanche maggiorenne e già condivideva l’idea che prendessi moglie?
Presi coscienza dell’accaduto quando, dopo essermi presentato in casa Solares e avere balbettato un paio di frasi che ricordo a stento, rientrai e trovai la madre di Ingrid al telefono con la mia. Stava lodando la figlia, garantendo che avrebbe avuto in dote denaro a sufficienza per comprarci un appartamento e confermando anche ai miei genitori che per lei e per il marito Ingrid sarebbe potuta diventare mia moglie prima dell’anno successivo. Il primo incontro ufficiale tra le nostre famiglie fu fissato per l’indomani, Ingrid restò raggiante per tutto il tempo e i suoi genitori cortesi e benevolenti.
Nel giro di un mese mi trasformai da eremita a giovane fidanzato, trovando in Ingrid un’amica leale, una compagna appassionata e una confidente brillante. A tratti mi sembrava di vivere l’esistenza di un altro. Salimmo sull’altare nemmeno sei mesi dopo, per il giorno del mio diciassettesimo compleanno. Evitammo di ripetere l’errore di mia madre e mio padre e congedammo gli ospiti subito dopo il rito religioso e civile. Avevamo rimandato il pranzo di nozze a dopo la luna di miele e così salimmo su una macchina noleggiata per l’occasione, mandando baci ai presenti e pregustando già la settimana di totale intimità che stava per accoglierci.
Raggiungemmo la nostra camera d’Albergo a Lisbona in meno di una settimana. Mi era stato riferito di essere stato concepito in una camera affacciata su un cortile, così come era accaduto per mio padre, per mia nonna e per il padre di mia nonna, perciò avevo chiesto una matrimoniale che immettesse quantomeno su un esterno. Una volta pagato il facchino e svuotati i bagagli, io e Ingrid cominciammo ad amarci senza paura e senza contare i minuti. Visitammo la capitale in lungo e in largo solo a partire dal terzo giorno, quando ci saziammo temporaneamente l’uno dell’altra e ci sembrò di conoscerci abbastanza a fondo per dedicarci alla scoperta di un altro universo: quello brulicante di gente al di fuori del nostro hotel, fino a quando le linee dei tram non ci divennero familiari e l’euforia non ci rapì, cancellando ogni voglia di ritornare in Spagna.
Inviammo allora un telegramma alle nostre famiglie per informarle che non avremmo lasciato il suolo portoghese nemmeno sotto tortura e che ci saremmo trasferiti di lì a qualche settimana nel primo paese dell’entroterra che ci avesse ispirato, promettendo di rendere note le nostre coordinate quanto prima. Per fortuna avevamo denaro a sufficienza per prolungare il nostro soggiorno a Lisbona e cercare nel frattempo un posto tranquillo, decentrato ed elegante in cui installarci. Finimmo per scegliere San Nuno appena dopo che Ingrid ebbe scoperto di aspettare un bambino.
Siamo arrivati qui in buona salute, grazie a Dio, sebbene come lei avrà intuito, mio buon sindaco, né io né mia moglie conosciamo qualcuno a San Nuno. Siamo appena arrivati e non abbiamo avuto modo di trovare una casa che facci al caso nostro. Siamo brave persone, però, mi auguro che lei se ne sia convinto, e siamo disposti a lavorare sodo fin da subito e a guadagnarci la vostra fiducia, se ce ne darete la possibilità. Tutto ciò che le chiedo è un riparo per stanotte, perché mia moglie è esausta e la gravidanza rende tutto più difficile.»
Il sindaco, incantato e stordito da quel fiume di parole, aveva giudicato positivamente Pedro Madras e la sua giovane sposa, al punto che si era prodigato per trovare una casa in cui due coniugi trascorressero non solo la notte, ma tutti i giorni a venire.
Influente com’era, era riuscito nell’impresa dopo solo sei ore e aveva accompagnato con la sua automobile i nuovi compaesani fino alla soglia dell’appartamento destinato a loro. Martim Azevedo, il proprietario, avvisato appena in tempo della visita dal segretario del sindaco, aveva accolto i signori Madras a braccia aperte, mostrando loro l’appartamento senza nasconderne pecche e qualità, e dichiarandosi disposto a venderlo seduta stante a un prezzo di favore. I nuovi arrivati avevano accettato e Martim Azevedo aveva consegnato le chiavi di casa a Pedro Madras, che le aveva affidate a propria volta alla moglie e aveva abbracciato riconoscente il sindaco, il quale era andato via poco dopo in tutta fretta, per mascherare le lacrime di commozione che gli stavano già solcando il viso.
Pedro e Ingrid Madras si erano ambientati subito sia nel nuovo nido d’amore che a San Nuno. Pedro era stato assunto all’ufficio postale e, considerati il suo zelo e la sua efficienza, dopo i primi tre mesi aveva ricevuto il primo aumento di stipendio. La sua puntualità sul lavoro e la sua gentilezza nei rapporti sociali, sommate allo stile di vita sobrio e misurato che sembrava avere insieme alla moglie, gli avevano procurato la stima e il rispetto dell’intera comunità in men che non si dica.
Quanto a Ingrid, era stato suo l’incarico di rendere accogliente e fresca la casa, di curare il giardino e di intrattenere vicini e curiosi alle ore più disparate della giornata: doveva essere paziente, sbrigare più di una faccenda domestica parlando poco dei malesseri della gravidanza e, all’occorrenza, rispondere alle domande più indiscrete senza scomporsi. Era stata una vera sfida, ma ne uscì indenne e, anzi, più cordiale di quanto non fosse stata fino a quel momento a Barcellona.
Le sue conoscenze si erano ampliate, le sue buone maniere erano diventate ottime e le sue lodi di moglie e padrona di casa avevano fatto il giro del paese, al punto che il giorno della nascita di Adela, otto mesi e una settimana dal loro arrivo, balie vecchie e giovani erano accorte al suo capezzale senza farsi pregare, assistendola per quasi due giorni dall’inizio delle doglie. La bambina era uscita a fatica dal ventre materno, strillando e scalpitando come un furetto, e si sarebbe di certo soffocata con il cordone ombelicale, se una donna tra le più anziane non si fosse accorta in tempo del pericolo e avesse prontamente imbracciato le forbici. Il corpicino della neonata era stato ripulito e Ingrid aveva chiesto di stringerlo fra le braccia.
Quando la sua pelle aveva toccato quella di Adela, la giovane madre aveva percepito la potenza spirituale del nuovo essere vivente, le anomalie a cui sarebbe andata incontro in maniera inevitabile e il nome che avrebbe dovuto accompagnarla, così disse:
«Sarà saggia come la sua bisnonna, bella come sua nonna e paziente come sua madre. Sarà testarda come lo è il padre di suo padre e nobile d’animo come Pedro Madras. Sarà selvaggia nel cuore e dolce nei modi. Sarà impossibile da decifrare, e si chiamerà Adela.»
Pedro Madras avrebbe preferito un nome diverso per la sua prima erede, ma accettò con devozione quasi mistica la creatura e le predizioni della madre, disponendo che fosse battezzata entro la sera stessa e che nessuno a parte Ingrid osasse occuparsi di lei. Poi lasciò che le donne consigliassero e istruissero la moglie senza imbarazzarle con la presenza di un uomo, e volò in ufficio a comunicare la buona novella. Qualcuno gli chiese che aspetto avesse la bambina e lui rispose con le parole di Ingrid, che si diffusero presto in tutta San Nuno. La dimora di Pedro e Ingrid, non a caso, brulicò per mesi di conoscenti che volevano trovare conferma di quel presagio materno, con varie conseguenze per la piccola Adela – tra cui corredi, moine a non finire e ispezioni di capelli, bocca e arti. Solo dopo che la primogenita dei Madras ebbe superato le prime febbri, l’inverno e qualche allergia, le pressioni si diradarono e i due sposi ripresero a vivere senza terzi incomodi in soggiorno.
Il carattere e le doti di Adela non tardarono a manifestarsi: piatti e bicchieri sparivano dalla credenza se lei li fissava per più di tre secondi, e sedie e soprammobili si spostavano secondo lo stesso meccanismo. Fischiavano i vetri alle finestre e il legno del letto matrimoniale, le ante degli armadi sbattevano a più non posso senza motivo e, durante la notte, le stanze sembravano attraversate da passi e fruscii. Con il passare degli anni, la bambina prese a sognare eventi che si verificavano al suo risveglio, a contare in lingue fino al giorno prima sconosciute e a percepire i giorni del mese in cui donne del paese si sporcavano di sangue.
I suoi prodigi non provocarono scandali, perché i genitori si prodigarono fin da subito a camuffarli o a sminuirli in pubblico. Nonostante questo, Pedro e Ingrid perdevano spesso il controllo della situazione durante la messa della domenica, quando Adela borbottava maledizioni contro padre Vicente, storceva la bocca in macabre smorfie e beveva dall’acquasantiera per poi sputare sul pavimento. Che la bambina fosse indemoniata, comunque, era da escludere: non si sarebbe spiegata altrimenti la sua predisposizione per il taglio e il cucito, per la matematica e per la danza del ventre, attività per le quali erano necessarie grande precisione e lucidità. Restava da capire da che membro della famiglia avesse ereditato certe peculiarità: Pedro, per quanto si fosse impratichito con i calcoli più svariati, non assomigliava granché alla figlia, e Ingrid si era sempre vergognata all’idea di ballare, oltre al fatto che trovava arcaico e poco utile passare il pomeriggio a confezionare tovaglie o sciarpe. Nemmeno i nonni avevano trasmesso molto alla nipote, ragione per cui alla fine Adela fu ritenuta un angelo inviato ai Madras da chissà quale cielo, con un’ala bianca come la neve e l’altra nera come la pece.
Quando poi fu iscritta a scuola, Adela sapeva già leggere e scrivere. La maestra Camila fece di lei la propria scolara preferita, viziandola con caramelle e baci sulla fronte. La bambina, abituata a essere trattata da sempre come un’adulta, si stupì dell’affetto della maestra e cominciò a inviarle bigliettini anonimi tappezzati di cuori. L’anno seguente le riservò sguardi sempre più intensi, mentre durante il terzo e il quarto anno si abituò a chiederle spesso carezze e abbracci. Non appena la maestra la accontentava, lei arrossiva fino alla punta delle orecchie. Camila Barbosa, un’anziana vedova da tempo immemorabile, amava i ragazzini perché non aveva mai avuto rampolli suoi. Rendersi conto che la piccola ricambiava le sue attenzioni l’aveva quindi colmata di una gioia genuina e al tempo stesso ingenua.
I genitori vennero a sapere di quelle stranezze in occasione di una festa di compleanno durante la quale Adela aveva tentato di baciare sulle labbra una compagna di classe. Di conseguenza, fu subito sottoposta a diverse visite specialistiche nella capitale, che ebbero come unica diagnosi la seguente: Adela era sana come un pesce, più intelligente dei coetanei e con una sensibilità fin troppo sviluppata. Non sapendo a chi rivolgersi dopo l’ennesima crisi umorale della figlia, i due si erano rivolti infine a Barão Pereira, unico dottore in tutta San Nuno, nella speranza che confrontarsi con il medico di famiglia svelasse l’arcano meglio di altri controlli mirati.
Nel visitarla, Pereira non si era accorto dell’orientamento sessuale della ragazzina, ma aveva colto il fuoco da cui era animata, insieme ad alcuni atteggiamenti tipici della sua età. Aveva notato, per esempio, che Adela si vergognava a giocare con gli altri bambini perché temeva che le si leggesse negli occhi quanta voglia avrebbe avuto di unirsi con loro. Aveva paura che si meravigliassero del suo entusiasmo e che la escludessero per il semplice gusto di spegnere la fiamma di quella candela, così restava in disparte di sua volontà. Non aveva mai pensato che poteva procurarsi una palla e andare in piazza a giocare lei per prima, per poi aspettare l’arrivo dei compagni, andare loro incontro e di domandare lei a loro se volessero unirsi al gioco.
Stava ancora combattendo con sé stessa per disfarsi della folle abitudine di chiedere il permesso per vivere, quando le era capitato di notare un’altra bambina due banchi davanti al suo. Si sentiva terrorizzata all’idea di parlarle e, pur di non condividere con lei la stessa classe, aveva deciso di restare per ore seduta sul letto da quando si svegliava all’ora di pranzo. Secondo i genitori si trattava di un guaio serio, tanto più che stava rimanendo indietro rispetto ai compagni.
Qualcuno al suo posto avrebbe adottato il metodo del Compro una palla, vado in piazza a giocare per prima e invito qualcuno a unirsi a me. Anche a lei era venuto in mente, ma a primo impatto l’idea le era parsa un po’ infantile e contro la sua natura. Eppure, le aveva detto a modo suo il medico di famiglia, quando si ha una palla in mano non è facile che qualcuno rifiuti il tuo invito. Fu per questo che una mattina di fine giugno, dopo la visita segretissima con Pereira, Adela finalmente si convinse. Non portò una palla con sé, però stringeva fra le mani un biglietto sbiadito. Si presentò a scuola durante la merenda e consegnò il foglio alla depositaria dei suoi batticuori. Filò via dall’edificio e tornò a casa di corsa, attraversando i due isolati in una manciata di secondi.
Mentre tornava sui propri passi, tuttavia, ebbe come l’impressione di avere trascurato un dettaglio. Quando si ha una palla in mano eccetera eccetera, non è facile che qualcuno rifiuti il tuo invito, le aveva suggerito il dottore. Il tranello stava proprio lì. Nascosto, ma lì. A posteriori le sembrò ben visibile. Non è facile dire di no: non sarebbe stato facile, certo, però sarebbe potuto capitare lo stesso.
Di nuovo in camera sua, Adela si morse allora le labbra. Non ci aveva riflettuto abbastanza. Magari la sua compagna avrebbe preferito giocare con un’altra palla, magari avrebbe trovato stupida la sua lettera. Magari le sarebbe servito qualcosa di più originale per guadagnarsi la sua compagnia, ecco, ormai ne era più che convinta.
Assorta com’era in quel tormento, poche ore dopo si meravigliò di scoprire che qualcuno aveva bussato alla porta e chiedeva di lei. La persona in questione non aveva portato con sé nessuna palla, tanto meno un’altra lettera stropicciata. Era semplicemente uscita di scuola, così com’era, per prima. Aveva attraversato due isolati, aveva chiesto di Adela e ora le stava di fronte con gli occhi spalancanti. La padroncina di casa l’aveva invitata a entrare e aveva provato a invitarla a giocare insieme. L’altra aveva annuito e le due avevano raggiunto insieme la camera più grande dell’appartamento, quella che immetteva in un piccolo cortile.
Biografie
Eva Luna Mascolino
Editor e traduttrice freelance, è nata a Catania e si è laureata con il massimo dei voti alla Scuola per Traduttori e Interpreti di Trieste, dopo avere svolto tre scambi all’estero. Ha vinto il Premio Campiello Giovani 2015, tiene corsi di scrittura e collabora da anni con concorsi, festival e riviste culturali, oltre ad avere cofondato nel 2020 Light Magazine. Attualmente vive a Milano, dove frequenta il master in editoria organizzato da Fondazione Mondadori, AIE e La Statale.
Elena Pagani
Lombarda di nascita, emiliana di formazione e siciliana di adozione, vive a Palermo dal 1983 dove ha attinto da esperienze artistiche che hanno lasciato una traccia importante nel suo viaggio attraverso la pittura. Numerose le mostre personali e collettive: in varie città d’Italia, ma anche a Barcellona, Londra e New York. Le sue opere, recensite da scrittori, poeti e critici, hanno ottenuto notevoli successi.
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