Le imposture

“Le imposture”

Racconto inedito di Giovanna Di Marco

Immagini dal trittico La regina cieca di Tiziana Salvi

(www.tizianasalvi.it)

I riferimenti a persone citate nel racconto sono frutto di invenzione

 

 

Lo pristino proponimento mio fu di narrar l’istoria di questo sacro loco. Fui però presa da gran curiosità di saperne l’intiero, che più oltre, come sovente accade in certi casi, mi diedi a ricercar piuttosto il particulare che un animo ramingo persegue e compiace, da figurarmi vivida e presente la vita che quivi passò, la vita di chi mi precedette in questo loco di preghiera, gli scoramenti de lo errare umano, ma anche la gloria che consacrò nobili donne, consegnandole alla storia e alla Fede.

 

Due candele illuminavano il foglio, ma la luce si propagava in un alone, arrivando alla ghiera rivestita da un trionfo di angeli.

Rimanere in una chiesa di notte può destare terrore. La Badessa era abituata alle orazioni notturne dietro alla grata, ai vesperi, alle veglie natalizie e pasquali; riti uguali, ma segni importanti per scandire il tempo. Aveva immaginato la scena tante volte in quegli ultimi giorni: lei con la tonaca del suo ordine che scendeva scale, attraversava corridoi, apriva porte e poi scriveva. Ma ora, mentre lo faceva, era tutto diverso: era in abito da notte, sentiva le mani fredde e sudate, e qualcosa, lì tra il petto e la gola, pareva sul punto di squarciare tessuti, ossa, pelle. Nessuno però l’avrebbe vista, eccetto Felicita, la conversa che aveva voluto con sé. Avrebbe dovuto svegliarla se fosse arrivato il sonno, questo era l’ordine. Sarebbe stata compagnia e testimone di quell’ultimo atto.

 

Felicita era seduta su una panca, un po’ distante, sotto la cappella di Sant’Orsola, anche lei illuminata da una candela posizionata sull’altare. Recitava il rosario. La Badessa l’aveva scelta perché solerte e ubbidiente. Da quando era stata accolta come suora laica, rispondeva sempre umile ai comandi. E poi era svelta, attenta. Era giunta al monastero ragazzina e la conosceva da allora. Le piaceva sottoporla a infinite umiliazioni: non reagiva mai.

La Badessa si interruppe un istante e la guardò. Le faceva rabbia riconoscere che i loro volti si assomigliavano. Non aveva in spregio le caratteristiche fisiche come, invece, il suo stato le imponeva, le teneva anzi in gran conto: aveva letto da qualche parte che il naso imponente contrassegnava l’intelligenza arguta, e la fronte, che aveva alta e ampia, il discernimento. Felicita, una serva, una stupida, le assomigliava. Le labbra le si piegarono in su per un attimo e il volto si corrugò, inasprito. “Ma Felicita ha gli occhi bovini” pensò, “i miei hanno lampi di arguzia”. E i suoi occhi, svelti, ritornarono sul foglio.

 

Ricercando tra le carte de li pubblici documenti usciti in stampa o divulgati a penna, già da tempo mi si figurarono le donne di nobili natali che abitaron tra queste mura. Ed ecco che, in questa notte, che è l’ultima che trascorro tra quest’inviolabil cinta, mi trovo desta a scriver per preservar la memoria de li recenti ultimi atti de lo novo Regno. Scaccian noi da lo nostro porto sicuro con la celerità di fulmine o di subitaneo sommovimento de lo suolo. Noi fummo le mansuete pecorelle, le nivee colombe racchiuse tra le secrete di questo scrigno antico, umili e obbedienti, ma di auliche schiatte, virgulti e propaggini di grifoni o felini, come mostran li nostri stemmi, dimodoché la pietade de lo nostro stato sposasse l’alterigia de li casati e pietade e alterigia, modestia e orgoglio si consacrassero nel bacio de le bende su le nostre fronti.

 

Aiutata dalla pratica della mnemotecnica, ricordava tutte le parole.  Le aveva già usate quando aveva implorato i potenti per la sua causa, ma adesso si sentiva libera. Il suo scritto non aveva più un destinatario preciso, forse non l’avrebbe letto nessuno. Le sue ragioni erano quelle dei perdenti e i perdenti venivano sempre dimenticati. Ma in fondo la storia, l’aveva capito dai libri, è una perenne impostura da cui nessuno impara.

 

Nell’ora terza verremo deportate ne lo vicino convento di Santa Caterina, a rimirar da le nostre grate le statue ignude de la bianca fontana, che dicon venga addirittura da Firenze, con la natura che mostransi de li soggetti a spregio de lo nostro sguardo virginale e l’onta d’una novella regola su lo nostro capo acciocché ci piegassero servili, loro, li facinorosi senza Dio de lo novo Regno che, poco più d’un lustro fa, con le lor camicie rosse turbaro lo nostro eterno e pietoso canto.

 

Non era vero, impostura era anche questa. Era tollerante quando passava per i corridoi e ascoltava l’ansimare sussurrato delle sorelle che si davano piacere. Pensò un attimo a quella fontana bianca con le Veneri e le Ninfe, l’aveva vista da bambina. A stare lì chiuse si poteva impazzire, si poteva deviare o assecondare ancora di più le proprie inclinazioni. Il suo comando le permetteva di gestire il desiderio. Sì, ci pensava a un corpo maschio, come il Marte della fontana, avvinghiato al proprio, ma non si concedeva, come alcune consorelle, al padre confessore o al giardiniere del loro orto che stabilmente si recavano in monastero – i piccoli cadaveri gettati nella cripta lo testimoniavano. Si dava, raramente, solo a qualche avventizio: non voleva alimentare dicerie.

Ticchettò con la penna sul foglio, lasciando sul margine dei lievi puntini. Si chiedeva se quelle parole andassero bene, se esprimessero appieno il senso della sua falsa castità. Quelle parole andavano bene, anche la castità era un’impostura.

 

Come s’appresta la nostra vita sotto lo giogo di una novella regola? La nostra, dettata dal Ss. Basilio Magno, detiene le due diritture; le Regulae su li nostri doveri e quelle su li vari usi de le siffatte regule ci volsero sì a lo studio per illuminare le menti, ma anche a li prodotti de lo nostro sudato impegno per temprar li nostri corpi. In questa notte di cure e angustie, io scrivo inerme, ma non m’abbandonano li fatti e le donne di cui cercai memoria: d’esse m’appare consistenza e con loro io erro ne li spazi de la mia cella, ne le stanze de lo mio monastero, tra la magnificenza de la mia chiesa, e a loro do udienza, squarciando il sudario del tempo.

 

Era pronta a scrivere del passato illustre, delle leggende su quel luogo sacro, della santa e dell’imperatrice per dare vigore alla tesi che stava consegnando al futuro, sconosciuto.

 

Nelli ultimi anni innumerevoli furon le mie suppliche e le mie orazioni che non si giungesse a questo segno di degradazione per noi monache de lo Monastero de lo Ss. Salvatore. E sollecitata fu da parte mia, come Badessa, la mia schiera di fedeli sorelle, perché preci rivolgessero a la Santa patrona de la Città, Rosalia. La santa vergine eremita da li tempi de li Normanni visse protetta ne lo nostro divino recinto. M’appare e m’accompagna in questa ora buia, e mi racconta de le sue circostanze e vicissitudini di vita, trapasso e gloria.

 

Si soffermò sul quadro nell’altare maggiore con la Gloria della santa. La memoria allenata è a volte come un palazzo mentale di percorsi, stazioni e stanze.

 

Ogni anno de lo mio rimembrar è in sintonia co li ricordi vaghi e dolcissimi de la sua festa detta Fistinu. Ne li ultimi tempi, a ogni buon conto, si è interdetto ne la temenza di tumulti o sedizioni o per l’empio miscredente novo padrone piemontese. Nondimeno giunsero viaggiatori da tutta Europa a rimirar lo nostro trionfo de la Fede, da definirlo lo spettacolo più bello de lo Continente, così, più o meno, lessi da le carte da me radunate per compor siffatto scritto. E noi lo rimiravam da la nostra platea, da le grate in alto sul Cassaro e ne avvertivam la concitata vigilia, il suo compiersi e rivelarsi: da questa membrana che ci separa da lo mondo, tutto giungea mitigato… li suoni e lo spirto de la gente. A noi eran date da veder le luminarie da le nostre griglie e lo popol minuto mescensi co li Signori de lo regno blasonati. Ma lo diniego de lo corteo ne la sua interezza a noi interdetto, noi obiettavamo colla fantasticheria e, come fate velate, volavam da lo piano de la Cattedrale in fino a giù e giù… lo mare de la memoria infantil, a goder de li fuochi, tra tintinnanti frottole e calia, simenza e babbaluci e l’anguria fresca per placare l’arsura. Eran sogni innocenti per seguir, inante, quell’urna ne lo suo carro fregiato alla guisa d’un vascello, che sì, quello io vedea da la mia grata, a riportar solerte la salute. Ritorna, vascello mio de la mia santa, a curar le piaghe de lo spirito e che miracol accada come ogni notte de lo tuo Festino e lo rito si perpetua, lanciando lo suo trionfo al ciel.

 

Le parole erano opportune, suggestive, ma non le bastava, mancava sempre quell’elemento, l’ineffabile, l’anima che si libra lieve dal peso del corpo. Cosa ne sapevano quelli che ormai comandavano il mondo? Cosa dell’avvicinamento a Dio attraverso lo studio? Giambo, ditirambo e lettura di un manoscritto antico: la fatica al mattino, dopo le preghiere. Forse, con il passare del tempo, le porpore cardinalizie le avrebbero date a loro, ai nuovi ricchi, e la santa madre Chiesa avrebbe resistito in qualche modo. Loro, monache nobili, no. Immaginò da lontano quei salotti di gente sagace che sapeva muoversi e spendersi ottenendo il successo. E lei che era arrivata in cima alla casta monacale ora precipitava, il suo nome sarebbe stato dimenticato. L’attitudine alla scrittura la rapiva, ma poteva scrivere solo di santi e beati, immaginare i loro tormenti indirizzati al trionfo della fede. Era vanità, quanto scriveva, lo sapeva. Il confessore la ammoniva, il suo tribunale interiore la condannava. Un prete bizantino, una volta, da dietro la grata le aveva parlato della sistemazione corretta delle immagini sacre: se San Michele Arcangelo doveva essere posizionato sulle porte delle case e delle chiese per scacciare il Maligno, l’icona della Ss. Trinità o del Pantocrator doveva stare nello studio perché la conoscenza, a un certo punto, avrebbe dovuto fermarsi. «Lui che tutto sa e conosce perché tutto ha creato non può essere sfidato da una mente umana che pure ha il suo seme». Ripensò a quel colloquio e ricordò di aver guardato per tutto il tempo la barba grigia e ricciuta: da quei grovigli sembravano dipanarsi pensieri e saggezza, al contempo quell’individuo ieratico effondeva una calma profonda. Diceva il vero.

“Cerco un’altra via alla salvezza dell’anima, che per me dovrebbe essere certa. Cerco l’eternità del mio scritto. Questa è eresia”, si disse.  Allora quella notte sarebbe stata la sua ultima volta. Le serviva che qualcuno, un giorno, leggesse le sue ragioni, che difendevano di certo Dio e la sua istituzione nel mondo. Non sarebbe più caduta nella tentazione di sfoggiare la sua cultura o di scrivere testi falsi per persuadere. Impostura era la Fede usata per difendere i suoi privilegi, quelli che avrebbe perduto con l’avvento del giorno. Quanto desiderava che quella notte non passasse più… Il ticchettio del Rosario di Felicita, il movimento delle sue gambe che accompagnava la preghiera sospirata, le suggerivano che invece era lì come un condannato a morte in attesa del boia.

Avrebbe subito scritto di Costanza d’Altavilla, figlia di re, imperatrice, che la leggenda voleva monaca in quel luogo, quando quella chiesa era ancora, ai tempi dei Normanni, uno scrigno di mosaici d’oro zecchino.

 

Ella bambina, come me e le mie suore, lasciò la vanità, lo vacuo ciarlare de la corte, li diletti de le vesti e de le trine…  sfilò co le sue membra innocenti ne l’ultimo corteo fino al sagrato, andò al tempio per sua scelta, salì con grazia le scale per la serena contemplazione de lo Divino. Ascese.

 

L’addio ai familiari, alla luce, alla vita… nei passi di quella bambina ci rivedeva i suoi e tremava d’emozione mentre scriveva. Passò in rassegna le altre Badesse: Ippolita, nel secolo precedente, aveva sfidato i costumi con una croce d’argento sul petto, elegantissima.

 

Scandaloso apparve quel vessillo, come un artifizio de la vanità, ma ella ne lo petto una croce recava, qual più possente simbolo de lo suo voto?

 

 

E poi la badessa Caruso che aveva avviato i lavori per la costruzione del nuovo impianto, della nuova chiesa. Conosceva ogni dettaglio: i balconcini eleganti e i loro velluti, le pale dei santi e ogni loro increspatura del colore, la cupola svettante, la sua fenditura che dava certezza del cielo ché quella vita trascorsa lì era una preparazione per quel fine. Poi il loggiato dodecagonale perché dodici erano gli Apostoli e i mesi dell’anno e le tribù di Israele. Lì le suore avevano distrazione nei giorni di primavera e lanciavano sguardi ai gesuiti del Collegio quasi dirimpettaio. Tutto sembrava possibile scorgendo il mare da quell’altezza, le altre cupole vicine quasi si afferravano. Si sentì prendere da un veleno che la inghiottiva e le appesantiva gli occhi. “Sei come la sentinella della roccaforte: devi vegliare, puoi resistere alla malia del sonno”, si diceva mentre la mano procedeva sul foglio. Ma un’altra voce serpentina le sussurrava: “La fortezza è stata espugnata, hai fallito!” Vide volti sconosciuti, uomini, donne, grande confusione. Ridevano, la deridevano. Voleva parlare, dire di non meritarlo, ma solo le labbra si muovevano; la voce rimaneva immobile, la sentiva come bloccata in gola e nella mente.

 

 

«Satanassu di lu sonnu, vattinni,

San Micheli cu li vostri pinni

Pigghiatilu pi l’ossu pizziddu,

iccatilu unni si merita iddu

ni lu ‘nfernu malandrinu,

no a muntata, ma versu pinninu».

 

Era ancora nell’atmosfera di quel sogno quando Felicita, bestia da cortile, la scosse con una delle sue solite preghiere per svegliare le monache durante le veglie. Eppure avrebbe rimpianto anche quei momenti: le notti infinite al freddo, le monache che cadevano nel sonno come dagli alberi gli uccelli tramortiti, e Felicita che passava tra di loro sbattendo le palme delle mani quasi davanti alle loro facce, quasi correndo tra le file di panche. Aveva i contorni delle labbra sporchi di cibo, del pane raggrumato sembrava essersi attaccato alla sua lingua, mentre spalancava la bocca. Avrebbe voluto picchiarla, anche perché, sveglia appena e stordita com’era, si specchiava in quella faccia ebete e, ancor di più, le assomigliava. Tentennò un attimo guardando oltre la luce delle candele ormai ridotte, alte solo quattro dita. Felicita, non vista, aveva finto di pregare per poi, invece, gozzovigliare. Alzò gli occhi verso la finestra. Probabilmente non avrebbe potuto completare la sua opera per colpa di una stupida conversa. Tutto quell’ardire nello stendere quelle pagine, d’un tratto, le apparve come un capriccio. Forse perché aveva la bocca impastata e gli occhi pesanti, e ogni dato della realtà le sembrava allucinato; si vide ridicola, quasi quanto Felicita. Si alzò di botto, come ad andarle incontro.

Si fermò per tempo dal rivolgersi a lei nel consueto modo brusco, limitandosi a uno sguardo rapace, e lei ritornò al suo posto, bofonchiando delle scuse. Rimase ancora in piedi, afferrò i fogli e rilesse. Dopo qualche riga, si sedette di nuovo. Si vide meschina. Che cos’era questa sua ansia di convincere il lettore postumo se non barocchismo e bizzarria pari alle decorazioni che rincorrevano le stereometrie della sua chiesa? Quel luogo bellissimo era vetusto, allo stesso modo avvertiva le sua parole ormai obsolete. Altri si sarebbero presi la sua chiesa senza comprenderne a fondo i simboli nascosti, pregio spirituale di quei manufatti. Non poteva che essere così. Cercò di essere più veloce:

 

E così mentre mi s’affollan, queste donne, ne li documenti e ne la mente ormai provata da l’affanni, come li sugheri in su l’onda, riaffioran color che strenuamente difesero lo culto de la Divina Liturgia e l’orazion.

 

E buttò giù ancora qualche nome. Aveva tentato la scrittura vestendo a una a una le tonache delle vere o presunte monache del passato, indossando i loro calzari, fingendosi loro. Era servito ad accorciare o forse ad allungare la sua notte nel diletto che dà quel tipo di sofferenza che si vuole patire fino in fondo, per poi scacciare. Del resto, il valore del tempo non è altro che una mutevole e fallace percezione. Da lontano arrivò il canto del gallo. Doveva lottare contro gli occhi che volevano chiudersi, la bocca secca, le dita intorpidite.

 

Lo nostro loco sacro già doman sarà di noi diserto: le nostre celle e lo monastero tutto, diverranno, dicono, una pubblica scola. Da regina di umiltade ne lo mio santo recinto, serva diverrò di altra badessa che lo Santo Domenico onora co le vestine candide e lo capo nerognolo. Li Piemontesi senza Dio lo vollero. Codesto mio scritto lo lascio in un cantone de la chiesa, dietro un altare, quello di San Basilio, ove fu ritrovato un cartiglio de la Santa Rosalia. Lo lascio celato, le sue parole pudiche non offenderanno punto lo loco puro, che, invero, s’avvia a lo crepuscolo. Cosa vedrà ancor, non oso immaginarlo: povertà, forse guerre? Di certo, declino. Quelle donne che m’hanno visitata m’hanno però recato conforto. Veggio dei baglior, odo il gallo solerte: oggi è già domani, si deve andare; l’oscurità ha consegnato la scena a l’aurora. T’abbandono casa mia, chiesa mia, come se abbandonassi lo mio corpo. Io e le mie sorelle, con dignità, ci avviam a lo nostro destino. Addio mio manoscritto, frutto di studio e fatica, addio care donne e sorelle de li tempi che furo, addio mio lettore indulgente e ricorda che non si fa a men de le vite altrui, è conforto per li tempi tuoi.

Maria Casimiro Drago

A. D. MDCCCLXVI

 

Era mattina. Era sveglia. Quanto scritto non le piaceva più. Avrebbe voluto, in un impeto, strappare tutto. La speranza di trovare un lettore in un giorno anche lontano trionfò: l’impostura della scrittura era la cornucopia di tutte le altre… La storia, la castità, perfino la fede.

Raccolse i fogli, li annodò tutti in ordine con un nastro e si alzò. Felicita era già dietro di lei, posava un candelabro, lo scambiava con il manoscritto che nascondeva dietro l’altare. La Badessa ritornò allo scrittoio, soffiò sulle candele e lasciò lì i candelabri d’argento, tanto ormai nulla poteva più appartenerle. Adesso era di nuovo Maria, solo un nome e un corpo. Qualche ora dopo avrebbe attraversato la soglia di quel luogo dove era imprigionata da trent’anni, avrebbe visto – seppur per poco e da dentro una carrozza – il mondo esterno.

Gli agganci dei nuovi potenti, gli occhi bovini di Felicita, il cesello alla sua opera, queste cose la assalivano. Ma, se nulla poteva farci per le prime due, molto altro avrebbe potuto per migliorare il suo componimento bugiardo. Camminò seguendo Felicita che illuminava quello spazio non più troppo buio, oltrepassò la porta che l’avrebbe ricondotta al monastero e non si guardò indietro. Un cono di luce arrivava di sbieco da una finestra.

 

Appendice

 

Il monastero del Ss. Salvatore di Palermo venne fondato in epoca normanna, quando i sovrani erano soliti favorire gli ordini religiosi sia orientali che occidentali. La tradizione annovera come sue ospiti Santa Rosalia, divenuta poi patrona di Palermo, e Costanza d’Altavilla, secondo una tradizione più propriamente guelfa – com’è anche ricordata nel Paradiso dantesco – strappata alla vita monastica per sottolineare quanto fosse abominevole la nascita di Federico II di Svevia. La chiesa si trova lungo il Corso Vittorio Emanuele II, l’antico Cassaro, fulcro principale del centro storico della città. L’edificazione della chiesa, per come la vediamo adesso, iniziò sotto la Badessa Giovanna Francesca Caruso dalla fine del XVII, e proseguì, tra varie vicissitudini, fino alla realizzazione della pavimentazione definitiva nel 1856. L’edificio mostra uno stile barocco maturo e una particolarità unica per quanto riguarda le chiese di Palermo: la pianta a ellisse. Le monache potevano godere, seppur da dietro a una grata, del corteo della festa di Santa Rosalia, detta Festino o Fistinu, che avveniva e avviene tutti i 15 luglio di ogni anno (anche se, durante gli anni prossimi all’Unità d’Italia e in quelli immediatamente successivi, venne sospeso a singhiozzi per evitare disordini), quando il carro della santa attraversa la città dal piano della Cattedrale al Foro Italico, ripercorrendo proprio il Cassaro, la strada del miracolo che venne compiuto quando i suoi resti, portati in processione, guarirono la città dalla peste nel 1624. Un’altra famosa Badessa fu Ippolita Lancellotto Castelli: destò scalpore agli inizi del XVIII secolo quando esibì una croce d’argento sul petto (seguita poi da altre consorelle), ritenuta troppo sfarzosa per il suo stato monacale. Nel 1866, sotto la Badessa Maria Casimiro Drago, con la soppressione degli ordini religiosi, le monache basiliane del monastero furono condotte nel monastero domenicano di Santa Caterina, situato nella non lontana piazza Bellini. Un’ala del monastero si affaccia su piazza Pretoria, detta anche piazza della Vergogna perché ospita una fontana con statue nude realizzata inizialmente per il palazzo di San Clemente a Firenze, e poi acquistata nel 1573 dal Senato palermitano. La chiesa del Ss. Salvatore venne pesantemente colpita dai bombardamenti del secondo conflitto mondiale. Dopo il restauro, fu a lungo usata come auditorium, prestandosi particolarmente, visto il suo aspetto teatrale. Oggi i locali del monastero appartengono a una scuola pubblica mentre la chiesa è ritornata a essere un luogo di culto

Tiziana Salvi descrive così la sua opera, il trittico intitolato La regina cieca:

(olio su tela, 70×100 + 35×50 + 40×30, 2020)

La coscienza sovrana risiede sul trono. Sul suo capo una corona, simbolo di potere, tra le mani ha il controllo della sua vita, la conoscenza della realtà e sotto i piedi il dominio delle sue azioni… Ma gli occhi sono chiusi: non vede davvero la verità, sulla fronte – sede dei pensieri – ha scritto ‘Illusione’ e i suoi piedi – possibilità di avanzamento – sono legati a due entità esterne e semi nascoste che rappresentano gli istinti.

È quindi solo una illusione della nostra coscienza avere il dominio e il controllo su noi stessi, ogni piccola o grande scelta è dettata da sottili forze nascoste in noi.

 

Biografie

Giovanna Di Marco

Nasce a Palermo nel 1978. Laureata in Lettere con una tesi in Estetica e specializzata in Storia dell’Arte medievale e moderna con una tesi sulla pittura medievale, vive e lavora a Palermo dove insegna materie letterarie nella scuola secondaria. È autrice di articoli pubblicati su riviste scientifiche afferenti a temi di critica e letteratura artistica e della rubrica di approfondimento culturale dal titolo Come se fosse Antani sul quotidiano online ilSicilia.it. Per Morel cura la rubrica Nuvole, dedicata alla letteratura ecfrastica.

 

Tiziana Salvi

Nata a Mantova, dopo una formazione classica, Tiziana Salvi si laurea in storia dell‘arte al D.A.M.S. di Bologna. All‘inizio del periodo universitario, dopo anni di disegno, si approccia spontaneamente la pittura ad olio come autodidatta, ispirata dagli studi teorici di arte. Compiute varie sperimentazioni, la sua poetica si indirizza verso la contemplazione dei luoghi più segreti e profondi dell‘animo umano. L‘intima dimensione emotiva plasma le immagini in una atmosfera magica e suggestiva, attraverso la ricerca di simboli evocativi e allusivi. Dopo diversi anni di pittura volutamente in solitaria, scoperta e spronata da un gallerista che la include tra i giovani artisti della sua galleria, decide di aprirsi al mercato dell’arte e inizia ad esporre in collettive e personali nel Nord Italia. Il suo stile si evolve arrivando a raffigurare personaggi femminili che non sono altro che alter-ego di fatti interiori. La figurazione per Tiziana Salvi, se pur dal forte impatto emotivo, é un veicolo per concetti squisitamente astratti, spunti per riflessioni filosofiche, psicologiche nonché sociali.

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