La mischia

La mischia

Dialogo con Valentina Maini

di Ivana Margarese

(Immagini di Elisa Anfuso)

 

La mischia, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2020, è il primo romanzo di Valentina Maini, giovane autrice che nel 2016 ha pubblicato una raccolta di poesie (Casa rotta, Arcipelago Itaca) e in seguito racconti su varie riviste.

«Dicono che i marinai passino intere giornate guardando il mare. Il mare, azzurro, più scuro, se il tempo peggiora, sempre che il mare abbia un colore, ha presente no? A furia di guardare il mare, cominciano a vedere cose, cose che non ci sono sul serio, forse le odono anche. Io dico che quelle cose ci sono, si sentono davvero. È una confidenza che le faccio, mi fa piacere, forse glielo devo. Sappia che mi ci ha fatto pensare lei, che l’ho capito grazie a lei». La coesistenza di visibile e invisibile è la cifra poetica di Gorane, questo mi ha spinto a pensare all’enorme valore dell’immaginazione per gli uomini.

Hai ragione, anche se quando si parla di immaginazione spesso la si ricollega a qualcosa di infantile, in senso dispregiativo però. Come se non fosse alla base di qualsiasi scoperta, anche scientifica. Per me è una specie di riflesso automatico, nella scrittura e nella vita, solo che non ho ancora capito se serve a proteggermi, a ricordare, a manipolare, se mi diverte o mi inquieta, forse in qualche modo mi libera. Da bambina l’immaginazione mi ha permesso di conciliare l’introversione con l’irrequietezza; forse, serviva anche per rifuggire il dolore, o amplificarlo. Da grande, non lo so. C’è il lato oscuro dell’immaginazione, che spesso mi ha costretta a percorrere territori inospitali, molto angosciosi. È sempre spericolata e irrefrenabile e non credo sia questione di saperla gestire o controllare: se la gestisci, in qualche modo la uccidi.

Mam-ma è il modo in cui Gorane, la protagonista, si rivolge alla madre evocando un suono infantile di aiuto e di appartenenza che ho trovato semplice e comunque potente. In maniera analoga Germana chiama Jo-kin il fratello di Gore con una pausa, un’incertezza, spacciata per l’innocenza di un bambino alle prime armi con le parole.

Il modo che le persone usano per rivolgersi a me, lo ascolto sempre con molta attenzione. Anzi forse è l’unica cosa che ascolto davvero, quando ho a che fare con qualcuno. Mi capita spesso che sia un’intonazione a lusingarmi o a ferirmi, molto più del contenuto, sono come Jokin. Quando ho immaginato Germana, l’ho vista come una tipa curiosa, strafottente e istrionica, che ama tenere sulle spine gli altri, farsi guardare. Da lì, ho costruito come un reticolato nel testo, ho fatto tornare e ritornare, in maniera più o meno celata, queste frasi mozzate dalla pausa di chi aspetta a prendere fiato e prova a martoriarti un po’. Ma forse non è così. Forse Germana, nel chiamare Jo-kin, torna semplicemente bambina.

“Qui, in questa casa di ombre e fili di luce. Non dormo mai in cantina, non devi preoccuparti. Non occupo i tuoi spazi, faccio finta che ci sei”. Questo scrive la protagonista al fratello, e a me è parsa una bellissima dichiarazione d’amore. Anche se non sei qui, per me continui a esserci, non prendo il tuo spazio che appunto resta tuo. La coesistenza del mondo privato, emotivo, personalissimo, col mondo reale mi pare uno dei possibili sfondi del tuo romanzo in cui ciò che si immagina ha una forma presente, quasi invasiva e amplificata.

Il rapporto con l’invisibile – che sia l’emotività, il passato, l’immaginazione, i morti – è lo sfondo necessario del mio romanzo, e il presupposto per entrarci, per capirlo. Se lo si nega, o lo si sfotte, il romanzo si sfalda. Mi pare che questa sia una delle componenti più rischiose e vulnerabili del mio testo: in questo momento è tutto così detto, spiegato, trasparente, pornografico, che il rapporto con ciò che non si vede è accostato al delirio, non più all’amore, e nemmeno all’intelligenza. E nemmeno alla realtà: guardare diverse dimensioni, essere consapevoli che esistono contemporaneamente, non è una fuga dal mondo, ma un modo per osservarlo meglio, nella sua complessità. Non ho l’illusione di vederlo per com’è, ma provo ad abbracciarlo più che posso, o a far sì che lui abbracci me.

Le parole de La mischia raccontano un dolore, uno rompersi della realtà che si frantuma in pezzi per cui si vorrebbe inventare un nuovo montaggio: “cerco di nasconderli, ma rinascono, sono minuscoli, quasi polvere, si annida, vorrei tornasse a somigliare qualcosa, una famiglia, una vita. Non ho istruzioni per ricomporre la figura”.

Credo che la realtà sia sempre rotta, che la linearità sia una costruzione un po’ farlocca e che ogni giorno proviamo a montare i pezzi di quello che ci accade, narriamo la nostra vita tentando di suggerire una trama. Nel montaggio di questo romanzo io ho provato soprattutto a restituire la simultaneità delle cose che succedono, questa sovrapposizione; un mondo che si muove e non se ne sta lì in posa perché lo scrittore lo catturi e possa disegnarlo con una sola linea, senza staccare mai la matita dal foglio. Poi ci sono romanzi che mettono ordine e schematizzano, distillano, va bene così. Ma qui ho tentato di comporre la mia storia sforzandomi di rispettare la realtà.

C’è un alternarsi impetuoso tra il bisogno di restare e quello di separarsi nei tuoi personaggi.

Sì, sono personaggi che non hanno vissuto la loro infanzia e per questo ne sono perseguitati. O sono loro a braccarla. Gorane ha molta energia, ma anche un fardello che a volte la blocca e che lei rievoca, come a voler fare rumore. Da bambini non sono stati visti, sono stati usati, in un certo senso abusati, per cui urlano perché qualcuno che ormai non può più vederli, si accorga di loro. Urlano anche per vendicarsi, per punire quei torturatori. E alla fine succede, anche se da una dimensione impossibile, anche se è tardi, vengono visti. Pochi giorni fa, durante un incontro, una professoressa mi ha fatto notare che il nome di Gorane può essere quasi scomposto in “Go. Run!”. C’è un’esortazione alla corsa, una specie di imperativo di movimento che ogni tanto però inciampa, è negato, come nei personaggi beckettiani. Gorane e Jokin vivono nello spazio della trasformazione, del passaggio, sono immobili e in corsa, allo stesso tempo, e questo li lacera e apre a noi lo spazio della loro ambiguità.

“Gli scrittori migliori che ho conosciuto nella mia vita quasi si vergognavano di dire in giro che scrivevano. Se ne stavano buoni buoni in un angolo e si facevano i fatti loro. Non erano nel giro, non si facevano vedere nei posti giusti”. Ti chiedo infine di dirmi qualcosa sulle esposizioni e pose degli ambienti letterari e dell’essere scrittori. La letteratura, scrivi, è fuori controllo. Non è possibile tentare di direzionarla con una frase fatta o presentazioni in giro.

Non saprei bene che dire, il mio personaggio ha espresso un parere che in larga parte condivido. Ti dico solo che per me la letteratura è dei coraggiosi, e i coraggiosi le recensioni non se le scambiano per farsi un favore. Lanciano una sfida, poi si inginocchiano e aspettano a occhi chiusi che chi ha ricevuto lo schiaffo dica loro chi sono.

Biografia

Valentina Maini (Bologna, 1987) ha conseguito un dottorato in Lingue e letterature straniere sul tema della guerra civile spagnola e delle sue trasfigurazioni letterarie. Alcuni suoi racconti sono comparsi su retabloid, Inutile, Atti impuri, TerraNullius, effe, Verde, Cattedrale. Nel 2016 ha pubblicato Casa rotta (Arcipelago Itaca), la sua prima raccolta di poesie. Casa rotta si è aggiudicato il premio Premio Letterario Anna Osti, sezione poesia. La mischia, il suo primo romanzo, è uscito il 20 febbraio 2020.

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