06 Dic Imperium
Imperium
Intervista ad Antonio Vena
Immagini di Agostino Arrivabene (www.agostinoarrivabene.it)
a cura di Ivana Margarese
Vorrei mi raccontassi del tuo incontro con Matteo Meschiari e di come è nata la vostra prolifica collaborazione.
Mi ricorda proprio stamattina Facebook che ho conosciuto Meschiari sembra esattamente 3 anni fa. Presentava, insieme a un amico, alla Modus Vivendi di Palermo, il suo nuovo libro. Prima della presentazione, in libreria, cominciai a sfogliare questo Neghentopia. Conoscevo il termine e il cammino dei segni che si portava addosso. La possibilità che il libro non mantenesse la promessa del titolo era alta. Non era un romanzo, illustrazioni, note di sceneggiatura, dialoghi componevano qualcosa verso un’epica del collasso. La coscienza del protagonista, e la resa nelle pagine, appariva e spariva, in un tired raging against the dying of light. Ho ascoltato la presentazione, Meschiari parlava di antropofiction, un altro segno che comprendevo. Ha parlato di McCarthy e La strada. Per una volta ho fatto una domanda, davvero interessato all’opinione di uno scrittore: quale evento ha causato il collasso della biosfera in The Road. Su questo avevamo e abbiamo opinioni differenti ma parole chiave e temi della nostra collaborazione erano già tutti lì a novembre di 3 anni fa.
Che ruolo ha la tensione verso un orizzonte utopico nella tua e nella vostra ricerca?
C’è un trick narratologico nell’orizzonte utopico e nella resa dell’utopia. Penso alla saga di Star Trek, forse la saga utopica per eccellenza, un po’ la summa dell’ottimismo di specie e dell’ottimismo cosmico: il capitalismo è superato, le stelle sono raggiungibili, l’essere umano può tornare a navigare ed esplorare, la grammatica dell’universo è comprensibile all’intelletto e alla scienza umana. Eppure dietro, prima della luce del futuro e dell’utopia c’è l’orrore di una terza guerra mondiale terribile, in cui miliardi di vite si sono spente e tra demoni superumani, armi nucleari, virus bioingegnerizzati il pianeta doveva essere diventato un inferno in terra e la sofferenza umana immensa. Credo e crediamo che sia il momento della possitopia nel romanzo. Va svolto e mostrato e illustrato cosa poteva essere con le scelte giuste, cosa possiamo immaginare senza sbagli ora che la finestra di opportunità dell’Olocene si è chiusa e nell’Antropocene ogni errore come singoli e come specie, ogni mese o ogni anno perso, ha delle conseguenze.
Imperium è costellato da un’atmosfera di pioggia, dal diluvio e si conclude con due esseri umani che camminano pallidi probabilmente sulle acque.
Imperium è un thriller, c’è un indagine, vittime, degli investigatori. È ambientato, cosa che non abbiamo davvero deciso o concordato, in una Francia due minuti nel futuro, dove tutto appare uguale a oggi ma il collasso di sistemi complessi incombe, il tentativo anche solo a parole di mitigare il global warming è miseramente fallito, rimane lo stigma sulle città da cui emergono virus pandemici e ancora gli uomini si uccidono. C’è un’indagine, azione frenetica e tempo non umano. È inevitabile che demoni che ci accompagnano dal sorgere dell’autocoscienza siano presenti. E camminano sulle acque come nell’antica Babilonia.
Imperium è anche caratterizzato da continui passaggi di stato, infiltrazioni, dissolvenze in un processo che più che definire sembra volere aprire a nuove possibilità di immaginazione.
Abbiamo rinunciato a descrizioni e favorito evocazioni e dissipazioni. Imperium è un episodio, ha backstory e ampia possibilità di prequel e sequel, impostato in modo che altre e altri, se vogliono, continuino.
La tua opinione sull’editoria italiana?
È un business complesso che lotta per attenzione e sopravvivenza. Lottare per la sopravvivenza è un dirty job. C’è una saggistica molto viva e attenta ai temi rilevanti che meritano interesse intellettuale. Al contrario letteratura e narrativa italiana mi sembrano in un ciclo di ripetizione immaginifica ormai logoro. Non è un mercato delle idee e troppo spesso sembra un inside joke.
La nostra rivista Morel cerca di recuperare il valore del mito, il cui etimo è connesso a myein, radice indoeuropea che rimanda all’atto di chiudere gli occhi e la bocca, metafora anche dell’impossibilità di esprimere tutto a parole, della necessità di aprire le orecchie per ben ascoltare. Spesso i miti narrano di esperienze di trasformazione che legano l’immagine di morte con quella di generazione o resurrezione. Quale valore ha il mito nella ricerca portata avanti da te e Matteo Meschiari?
Sembra che il mito sia nato prima come funzione salvifica e poi ordinativa. Narrare e rappresentare sono stati tool fondamentali per la sopravvivenza. La lotta contro mostri antichi ritorna ora che i demoni dell’asimmetria impazzano e gli iperoggetti sono entrati nelle case. Il romanzo borghese italiano alimenta e propone una sindrome di Pollyanna che, se ridicola prima, adesso è diventata semplicemente nociva. Un romanzo che non suggerisce un nuovo mito è secondo me alla meglio inutile nell’Antropocene.
Entrambi abbiamo un legame con Palermo e con la Sicilia, un luogo separato che è al contempo un convoglio di energie e sproni inattesi. Qual è la tua relazione con l’isola?
Sono nato a Palermo, vivo nel nord Italia da qualche anno, una parte della mia vita attiva si è svolta all’estero. Per lavoro ho viaggiato molto in Sicilia, soprattutto in autunno e inverno. Le località più belle dell’isola le ho visitate ed esplorate soprattutto nelle stagioni appena fredde e piovose dell’anno. La Sicilia e Palermo sono quasi sempre state le occasioni per ricominciare, dormire con un occhio aperto, fare rapporto danni. Poi rivedere le persone a me care crescere e invecchiare.
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