23 Gen Cecilia, suona ancora…
Cecilia, suona ancora…
di Martina Mele
Il cinema documentaristico di Cecilia Mangini, una delle prime e massime esponenti del genere in Italia, si potrebbe definire secondo due principali direttrici d’analisi: da una parte, il cinema come mezzo di resistenza e rivendicazione; dall’altra, il cinema come mezzo di sopravvivenza.
Per quanto concerne la prima direttrice, quello di Mangini è un cinema pionieristico nell’affrontare questioni legate alla figura femminile, quali l’autonomia dall’industria cinematografica e dal sistema patriarcale e la propria identità di donna, che si esprimono anche nell’assetto stilistico attraverso la formulazione di un’estetica sperimentale che fa del montaggio e del found footage i suoi ubi consistam: si pensi ad un film cardine come Essere donne (1965) in cui la pratica del montaggio, il cui ritmo sembra imitare quello dei macchinari delle fabbriche e delle giornate estenuanti delle donne lavoratrici, e del found footage «hanno consentito alla regista di appropriarsi delle forme canoniche del cinema di propaganda per riusarle e modellarle al fine di creare uno specifico spazio femminile in un contesto culturale e produttivo di evidente egemonia maschile».
Essere donne (1965)
Essere donne è stato oggetto di censura: non fu distribuito, venendo pertanto escluso dalle programmazioni in sala.
Un cinema realista, che documenta e denuncia realtà ritenute periferiche e problematiche, come quella delle precarie condizioni lavorative di operaie, operai, braccianti, dell’arretratezza e dell’industrializzazione del Mezzogiorno (Tommaso, 1965) o delle periferie cittadine (La canta delle marane, 1961; Ignoti alla città, 1958 – entrambi ispirati ai Ragazzi di vita di Pasolini).
Un cinema militante, caratterizzato da una forte partecipazione da parte di Mangini all’interno del contesto socio-politico e culturale in cui si muove: Cecilia cresce durante gli anni del fascismo e nel 1962, dal sodalizio con il marito Lino Del Fra e il critico cinematografico Lino Miccichè, nasce All’armi siam fascisti, che sin dal testo introduttivo rende noto il coinvolgimento attivo della regista pugliese negli eventi storici contingenti e anche la responsabilità civica, individuale e collettiva:
«Questo film vuole dire soltanto che noi siamo i figli degli eventi riassunti da questo schermo ma siamo anche i responsabili del presente. In ogni momento, in ogni scelta, in ogni silenzio come in ogni parola, ciascuno di noi decide il senso della vita propria e di quella altrui».
Si rintracciano, inoltre, importanti riflessioni riguardanti il rapporto dialettico tra politica e cultura, al cui proposito scrive Mangini: «A un effettivo rapporto dialettico tra politica e cultura si giungerà nel momento in cui gli intellettuali saranno in grado di comprendere e di contribuire all’elaborazione ideologica, di non subirne ma di denunciarne gli errori, di capire quanto sul piano politico è tattica contingente e quali sono invece i valori storicamente permanenti da difendere e far progredire».
Relativamente alla seconda natura del suo cinema, quella di mezzo di sopravvivenza, prendiamo in prestito le parole di Régis Debray in Vita e morte dell’immagine:
«Prima scolpita, poi dipinta, l’immagine è, all’origine e per la sua funzione, mediatrice tra i vivi e i morti, tra gli umani e gli dèi; tra una comunità e una cosmologia; tra una società di soggetti visibili e la società delle forze invisibili che li assoggettano. Questa immagine non è fine a se stessa, ma è un mezzo di divinazione. […] Detto in modo più conciso: è un vero e proprio mezzo di sopravvivenza».
Un cinema come indagine, scoperta, salvaguardia, sopravvivenza della memoria: pensiamo ad un film come Stendalì – Suonano ancora (1960), documentario tratto dal libro Morte e pianto rituale di Ernesto de Martino, in cui Mangini recupera un arcaico rito dimenticato, quello della trenodia in grìco ai piedi del defunto, eseguita nel documentario da alcune prefiche di Martano: Pasolini, con cui Cecilia scrisse la sceneggiatura, attinse alla traduzione in italiano (risalente al 1870) di quel canto funebre e assemblò i versi che gli sembravano più belli fino a creare un canto inesistente. O, ancora, si guardi ad un film come Divino amore (1961) in cui Mangini documenta ed interpetra alcuni riti che avvengono nel santuario laziale del Divino amore. Paradigmatico del recupero e della conservazione della memoria è anche il suo ultimo lavoro Due scatole dimenticate – un viaggio in Vietnam (2020), costituito da reperti fotografici parte di un reportage etnografico realizzato durante i sopralluoghi per un film sull’indipendenza del popolo vietnamita.
Sopra: Stendalì – Suonano ancora; Sotto: Due scatole dimenticate – un viaggio in Vietnam
Quello di Cecilia Mangini è un cinema coraggioso ed innovativo, che si è fatto (e continuerà a farsi) promotore di un messaggio d’impegno civile e culturale di estrema importanza, sia dal punto di vista di diritti della donna, sia dal punto di vista politico e, soprattutto, di memoria culturale: «un cinema di ricerca, un cinema che pone costantemente il dubbio su che tipo di rapporto avere con il mondo».
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