25 Feb (Troppo) POCHI DICONO STEFANO VILARDO
(troppo) Pochi dicono Stefano Vilardo
di Michele Burgio
Se per accostarsi a un libro vi è bisogno di una qualche motivazione, ecco che la rilettura di Tutti dicono Germania Germania di Stefano Vilardo ne impone molte. La prima è che il suo autore ci ha lasciati da pochissimo, e con lui scompare uno degli ultimi scrittori del pieno Novecento. Nelle note d’agenzia e negli sparuti articoli che si sono interessati al suo decesso (su tutti emerge un appassionato ricordo di Salvatore Ferlita su “Repubblica” del 17 gennaio), più che per la sua attività letteraria, egli è stato ricordato per la sua lunga amicizia con Leonardo Sciascia, quasi che essa costituisse un merito di per sé. Ed è appunto questa, la seconda motivazione: conoscerne l’opera può aiutare a distaccarsi dall’idea che Vilardo sia stato soltanto il compagno di scuola magistrale, il compare di nozze, l’amico fraterno di Sciascia.
Quantunque intellettuale diversissimo per vastità di sguardo e impatto sulla società, Vilardo ha sviluppato una poetica originale che si differenzia profondamente da quella del suo più caro amico. Ciò che li accomuna alla radice, ed è senz’altro una radice tenace, è la formazione letteraria negli anni Trenta del secolo scorso in una Caltanissetta che, quantunque Brancati la definisse già allora “insipida e noiosetta”, oggi ci appare unica e irripetibile.
Stefano Vilardo nasce a Delia nel 1922 e lì trascorre la sua infanzia, prima di trasferirsi a Caltanissetta per conseguire il diploma. Sarà maestro di scuola sia nel suo paese che nel capoluogo di provincia, prima di trasferirsi a Palermo compiuti i cinquant’anni. Fu per lo più poeta (I primi fuochi, 1954; Il frutto più vero, 1960; Gli astratti furori, 1988; tutti editi da Sciascia Editore), oltre che cultore di racconti popolari siciliani (Il paese del giudizio, Il vespro, 1977); relativamente in tarda età, e pare proprio su amorevole pungolo di Sciascia, si è sperimentato anche in prove narrative (Una sorta di violenza, 1990, e Uno stupido scherzo, 1997, entrambi editi da Sellerio). La bibliografia sull’autore non è molto nutrita: ad esclusione della documentata e inedita tesi di laurea di G.S. Mandalà discussa presso l’Università di Palermo nell’anno accademico 2000/2001, si tratta per lo più di articoli apparsi sui quotidiani e poco altro. Tra la letteratura scientifica, si segnalano almeno i due saggi di Natale Tedesco nei quali il critico bagherese, pur interessandosi all’attività poetica di Vilardo, lo relega in una dimensione provinciale.
La rilettura che appare più urgente è anche quella della sua opera più fortunata, le quarantadue poesie di Tutti dicono Germania Germania che Vilardo pubblica nel 1975 per i tipi della Garzanti (oggi è disponibile in edizione Sellerio). A promuovere la silloge è Leonardo Sciascia, che ne cura la prefazione. La gestazione è avvenuta nel corso degli anni Sessanta; la raccolta può dirsi conclusa già nel 1968, a quanto si apprende da una lettera che Daniele Ponchiroli, caporedattore Einaudi, scrive allo stesso Sciascia, ma bisognerà aspettare ancora qualche anno prima di trovarle una degna collocazione editoriale. Dopo la pubblicazione, l’interesse suscitato sarà testimoniato da diversi articoli comparsi sui quotidiani nazionali tra i quali si segnalano quello di Claudio Marabini sul Resto del Carlino e, soprattutto, l’intervista che Vincenzo Consolo fa all’autore e che viene pubblicata sul quotidiano palermitano L’Ora nell’agosto del 1975. Più di recente, vanno citati per lo meno i lavori di Paolo Mario Sipala e di Francesco Virga, che a queste “poesie dell’emigrazione” hanno dedicato articoli di saggio e le considerazioni, per lo più linguistiche, di Salvatore Bancheri. Definire Tutti dicono Germania Germania semplicemente come una raccolta di poesie è limitativo e quasi fuorviante. Alla base del libro vi sono quarantadue etnostorie di alcuni dei suoi compaesani emigrati che Vilardo raccoglie a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta registrando su un nastro magnetico le loro testimonianze rese durante le vacanze natalizie ed estive. Infatti, tra il 1951 e il 1971 la popolazione del comune di Delia, essenzialmente agricolo, decresce del 30% a causa della crisi del settore e della mancata riconversione. L’emigrazione rimane come unica opportunità occupazionale e la Germania è la meta d’elezione: si stima che in quegli anni circa quattro milioni d’italiani vi si trasferiscano, facendone spesso ritorno dopo brevi esperienze. Molti dei protagonisti intervistati sono già reduci dall’esperienza di emigrazione in Venezuela che negli anni Cinquanta aveva coinvolto più di centomila italiani, la maggior parte dei quali non aveva trovato sbocchi occupazionali soddisfacenti. Si tratta dunque di emigranti senza posa, giovani uomini che fuggono dalla fame e non riescono a trovare una loro collocazione nel mondo.
Vilardo sceglie di volgere in poesia le loro vicende ma, con acume e intelligenza, non ne fa una agiografia dei derelitti, né una trasfigurazione slavata e posticcia. Trova piuttosto il perfetto punto d’incontro tra il racconto asciutto dei fatti e l’insito elemento poetico di quel genere di narrazione. Qualche critico ha voluto marcare l’accento su una certa prosaicità dei versi, quasi a sminuirne la valenza letteraria a vantaggio esclusivo del lavoro etnografico; invece, è esattamente al contrario. L’immediatezza che è propria delle poesie è frutto di un fine lavoro di mediazione del poeta: lo stesso Sciascia, a commento, dirà che l’apparente assenza del lavoro di ricreazione è allo stesso tempo il maggior merito ascrivibile al poeta. Qualcun altro, ha poi posto l’accento sulla ripetitività delle narrazioni che, in effetti, appaiono simili, perché unanime è la vicenda dei nostri emigrati. Vide bene, infatti, il già citato Ponchiroli (poi ripreso da Marabini) quando, in quella lettera di così tanti anni antecedente la pubblicazione, definì l’opera come “la Spoon River degli emigrati siciliani”. A guisa della celebre opera di Edgar Lee Master, infatti, i resoconti degli emigrati sono dolenti epitaffi sulla loro esperienza: essi si sovrappongono e assumono la vocalità di certi lamenti corali tipici della tradizione popolare dell’entroterra siciliano.
Si tratta di una poesia asciutta, dai toni epigrammatici, che non ha bisogno di orpelli per caricarsi di significati e di pathos, perché il significato è già lì, in quelle vite che si arrovellano sulla fatica dei giorni, sul significato del sacrificio, sull’incertezza del premio.
E qui giunge la ragione principale della lettura nel nostro tempo di Tutti dicono Germania Germania. L’abbandono coatto della propria terra, dettato da ragioni economiche, è tuttora un fenomeno di enormi proporzioni, sebbene come emigranti ci riguardi ormai marginalmente. Gli immigrati che si riversano sulle nostre coste e che si inseriscono nel nostro mercato del lavoro, vivono le stesse pietose condizioni che un tempo furono riservate a noi sciais, “capre”, come ci definivano i tedeschi. Come le migliaia di africani oggi disseminati alla stranìa delle nostre contrade, i compaesani del poeta emigravano per fuggire da una condizione di totale inoccupazione: avevano resistito alla condizione di braccianti, alle dieci ore di lavoro condite soltanto da un tozzo di pane e mezza cipolla, alle cene imbandite con un semplice piatto di pasta e lenticchie, ma alla fine avevano capitolato di fronte all’impossibilità di provvedere al mantenimento dei figli e della famiglia.
L’accoglienza degli immigrati siciliani si scontrava con l’ostilità di un popolo il cui pregiudizio nei confronti di tutti gli italiani era ancora legato alla memoria dei fatti risalenti alla Seconda Guerra Mondiale:
Non si va d’accordo solo con le vecchie carcasse
che non possono dimenticare il nostro tradimento
badoglio ci gridano
e ci mostrano i pugni
Per essere ammessi regolarmente in territorio tedesco bisognava dimostrare di essere in possesso di una consistente somma di denaro. Chi non poteva farlo, era costretto a introdursi clandestinamente: la traversata era un vero e proprio viaggio della speranza, irto di insidie. Non c’era bisogno di ammassarsi su un barcone, ma c’era da compiere il valico delle Alpi durante rigidi inverni ai quali i nostri conterranei erano del tutto impreparati.
Trovammo sul posto chi doveva farci espatriare
Il patto era
che dovevamo dargli sessantamila lire
e lui ci assicurava il lavoro
Partimmo da Caltanissetta
con il treno delle quattro
Una vita dannata
che quando lasciavamo il treno
camminavamo a piedi di notte
come anime del purgatorio
tra foreste e valloni
Ma Dio ci diede grazia e arrivammo a Nizza
Da Nizza dovevamo passare in Germania
e ci fu bisogno della macchina
mettemmo altre cinquemila lire l’uno
Passammo di notte
Ci lasciarono in una cava di pietre
ché le montagne dovevamo passarle a piedi
Pioveva
oh acqua Signore
Attendemmo il ritorno della guida
bagnati come pulcini
Quanti sacrifici Signore
per buscarci un pezzo di pane
Quando Dio volle la guida tornò
ci rimettemmo in cammino
e pioveva pioveva
Dovevamo superare una montagna così
e buio che non si vedeva né cielo né terra
Chi a branciconi
chi con bastoni di fortuna
tentavamo di passare la montagna
tutti infangati
morti di sete e di fame
E a un riflesso di luce lontana
ci buttavamo a terra
ché avevamo paura delle guardie
e l’acqua che ci cadeva addosso
a infradiciarci tutti
Camminammo tutta la notte
ed era il diciassette maggio
Di giorno ci fermammo ad una casa
tutta sporca di merda parlando con rispetto
Eravamo morti di freddo
tutti bagnati
Uno voleva accendere il fuoco
con una porta tutta sfasciata
Se ci vede la polizia siamo fottuti
disse la guida
lasciammo perdere
ci asciugammo tutta quell’acqua addosso
Poi la guida
ci portò fuori da quell’inferno
Le condizioni di alloggio che i nostri connazionali trovavano oltralpe erano miserrime. Spesso ci si ritrovava ammassati in baracche prive di servizi igienici e di illuminazione.
le baracche che dovevano accoglierci
ancora non erano pronte
e pioveva
il pulia mi diede del compensato per riparare le robe
ché non dormissi sul bagnato
La sera le baracche furono pronte
ma il vento si infilava per gli spacchi
pazienza
stetti così per tre giorni nel freddo e nel buio
mancava pure l’elettricità
Si trascorrevano giornate sfiancanti, con turni di lavoro anche di dodici ore, al termine delle quali, ritornati in baracca, bisognava provvedere ai propri bisogni
Naturalmente la pulizia ce la facciamo noi
noi ci cuciniamo e ci laviamo la biancheria
ci rattoppiamo la roba
ché non possiamo vestire da pagliacci
Non vi era consolazione nei giorni di festa, né rifugio nel calore familiare. Come possono, versi come questi, non far pensare alle raccogliticce riunioni di soli uomini asiatici o africani che ci capita di vedere nei cortili e nei bassi delle nostre città?
Le feste poi le passiamo come cani bastonati
A volte ci riuniamo in due tre amici
prendiamo un chilo di carne e la cuociamo
tanto per dire è festa
Le abitudini liberali delle donne tedesche generavano sui siciliani del tempo, abituati a ben altra condotta, sospetti e maldicenza. Quante volte, dialogando con un bengalese o un tunisino, capita di ottenere considerazioni del tutto simili, riferite alle nostre donne?
Non ho intenzione di sposarmi in Germania
io voglio tornare qui nel mio paese
ché lì le donne non hanno costanza
oggi col marito domani con un altro
e questo io non potrei sopportare
ché in Sicilia abbiamo altre abitudini
e la donna deve stare al posto suo.
Patente era il senso di disillusione nei confronti della propria condizione e la consapevolezza che l’emigrazione da terre matrigne altro non è che il frutto di società matrigne. Laddove il patto sociale si è spezzato, il sentimento di disprezzo nei confronti dei propri governanti è assoluto
ché se loro dovessero campare
lontani dalle mogli dai figli
disperati
in cerca di un pezzo di pane in terre straniere
non avrebbero una faccia
così soddisfatta
quando appaiono alla televisione
a raccontarci minchiate
Fra gli emigranti, alcuni finivano per riconoscere nel sistema tedesco una possibilità di riscatto per l’intera famiglia e tentavano la strada del ricongiungimento familiare oltralpe ma, nella maggior parte di casi, la malinconia finiva con il prendere il sopravvento. Ci si chiedeva se davvero il viaggio avesse migliorato complessivamente le condizioni di vita e, nel gioco del pari e dispari, a volte ci si pentiva di essere partiti e ci si affidava a un cieco ritorno
L’aria è bastarda umida soffocante
non ci si sente veramente vivi
come qui a Delia
quando la mattina mi alzavo per la campagna
contento e allegro
anche se mangiavo pane e cipolla
I versi di Tutti dicono Germania Germania ci giungono da un passato recente, eppure del tutto dimenticato da noi stessi italiani. La silenziosa uscita di scena del suo autore, intellettuale discreto che, pur perfettamente lucido, ha preferito tenersi lontano dai circoli letterari della città in cui viveva, non può costituire alibi per sottrarsi alla sua conoscenza. Perché questo tipo di letteratura è racconto, e il racconto è già storia. Una storia che, nello specifico, serve ad accomunarci in una realtà che crediamo non ci riguardi affatto in prima persona e che invece è assai più facile da comprendere se approcciata al lume della consapevolezza che si tratta della nostra stessa storia.
Biografia
Michele Burgio insegna materie letterarie nei percorsi di istruzione per adulti. È dottore di ricerca in Scienze del linguaggio e si è occupato per un decennio di dialettologia, onomastica e lessicografia. Ha recentemente pubblicato Favi amari. Il lungo viaggio del cantastorie Nonò Salamone (Lussografica, 2020).
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