Cultura visuale. Una genealogia

Cultura visuale. Una genealogia

di Ivana Margarese

 

Nelle Argonautiche Apollodoro dice, forse per via del battito delle loro ali e del volo, che le Sirene sono figlie di Tersicore, musa della danza.
Le Sirene sono anche giovani donne alate e rientrano da questa prospettiva nel topos della “fanciulla che avanza con passo danzante”. Un’apparizione venuta non si sa da dove, seducente ma al contempo perturbante, che è divenuta figura ricorrente nell’ambito della cultura visuale. Ogni immagine è innanzitutto incontro, tensione tra memoria e desiderio, tra sguardo e corpo. Una tensione che non può risolversi in mero e definitivo possesso. La Sirena è figura della soglia tra conoscenza lecita e illecita, tra vita e morte, come la Ninfa-Gradiva, eroina impersonale dell’aura, che vive tra vicinanza e lontananza, tra flusso e stabilità.
Sulle tracce della figura della Ninfa/Gradiva, colei che avanza”, con capelli e panneggio al vento, si muove questa lettura dell’ultimo saggio di Michele Cometa dal titolo Cultura visuale. Una genealogia, edito da  Raffaello Cortina (2020).

La novella Gradiva di Wilhelm Jensen narra la vicenda di Hanold, un giovane archeologo, che durante una visita alle rovine di Pompei crede di scorgere in una figura femminile che cammina la Gradiva raffigurata in un bassorilievo romano. In seguito verrà a conoscenza del fatto che questa visione quasi onirica altro non è che una persona reale: la sua amica dinfanzia, Zoe Bertgang, anche lei in vacanza a Pompei con il padre. I due erano stati vicini di casa e Zoe era stata con tutta probabilità il primo oggetto di desiderio amoroso di Hanold, da lui del tutto rimosso.
Il racconto mette in scena un ricordo negato e riattivato in cui l’immagine attiva attraverso Eros una dinamica conoscitiva. Già Plinio il Vecchio raccontava come la pittura avesse avuto origine dalla traccia del profilo del volto amato attorno all’ombra proiettata su una parete e Diotima nel Simposio di Platone, rendendo la forma del corpo sprone per la conoscenza, affermava che Eros amando il bello, è necessariamente amico della sapienza (philosophos).
La cultura visuale è una disciplina complessa o, come Michele Cometa preferisce chiamarla sottolineandone tutta la potenzialità sovversiva e problematica e il carattere di costante movimento, “una indisciplina”.
Cometa nel tentativo di ordinare l’ampio panorama della cultura visuale, terreno di convergenza tra studi culturali e storia dellarte, ma anche tra scienze umane e storia, fa ricorso a una genealogia, una costellazione di autori e di esperienze intellettuali formata da tre figure paradigmatiche vissute tra Ottocento e Novecento: Aby Warburg, Sigmund Freud e Walter Benjamin.
I tre autori hanno in comune sia l’origine ebraica – sfatando così il mito di unostilità culturale o religiosa dellebraismo nei confronti delle immagini e, più in generale, del visuale – sia l’appartenenza a ununica koinè culturale, la cultura tedesca tra Ottocento e Novecento:

Parlerò dunque di Warburg, Freud e Benjamin non per dimostrare, come è ovvio, che sono stati tra i principali precursori della cultura visuale, ma per fare esplodere tra le pieghe delle loro opere quelle energie che, creando unimmagine istantanea, si manifestano ancora nel presente. Benjamin descrive queste costellazioni di senso, queste immagini-pensiero (Denkbilder), come un lampo improvviso che scardina le consuete coordinate del tempo e dello spazio (Weigel, 2015), immagini di cui ci si appropria nel momento del pericolo, poiché solo in determinate situazioni è possibile cogliere nellattualità il riverbero del futuro.

Il metodo di questi autori, che ha del resto innegabilmente condizionato le esperienze e  limmaginario artistico contemporanei, viene declinato attraverso le componenti del regime scopico: immagini, sguardi, dispositivi. Facendo proprio il celebre motto di Aby Warburg il buon Dio si cela nei dettagli, nella terza parte del saggio dedicata alle Iconoteche, Michele Cometa si sofferma sugli ambienti visuali in cui si sono mossi i tre protagonisti e sulla figura della Ninfa-Gradiva, che si ritrova sia nell’incompiuto atlante delle immagini di Warburg, sia nella grande collezione di antichità di Freud, che ne possedeva una copia in gesso acquistata a Roma e posta sopra il lettino dei pazienti.
Il principio dell’atlante ha certamente dei predecessori negli ambienti delle Wunderkammer barocche o dei cabinet damateur, vere e proprie sperimentazioni di immagini multiple disposte luna accanto allaltra nello stesso ambito spaziale. Un “vedere” che sta alla base della cultura visuale moderna e che attua un processo dinamico di costante alternanza tra la percezione individuale e comparativa, tra le parti e il tutto, che permette allo spettatore di notare ciò che non ha visto prima.
Warburg lavorò allAtlante Mnemosyne negli ultimi cinque anni della sua vita rielaborando peraltro costantemente la disposizione delle circa duemila immagini raccolte, in un lavoro di sperimentazione continuo, un flusso ininterrotto, verbale come visuale, di associazioni, memorie, sopravvivenze che appartengono alla vita delle immagini. L’atlante va in cerca di rapporti intimi e segreti, di corrispondenze, secondo una logica che in un primo tempo sfugge.

È stato spesso notato che Gradiva, donna che avanza con i capelli scomposti e le vesti danzanti, è una figura che richiama alla memoria la ninfa warburghiana. Nella tavola dedicata allaffresco della Nascita del Battista (1485-1490) dipinto dal Ghirlandaio in Santa Maria Novella, probabilmente la più celebre e la più significativa di tutto lAtlante Mnemosyne, c’è una figura di fanciulla che porta un canestro di frutta e irrompe nella stanza in cui è nato il Battista. La figura rappresentata è dichiaratamente un fantasma del desiderio. Nella lettera a Aby Warburg del 23 dicembre 1900 l’amico Jolles scrive:

Ho conosciuto la donna durante una visita domenicale in una chiesa […]. Abita nel coro di Santa Maria Novella […]. Vicino alla porta aperta corre, anzi vola o meglio si libra loggetto dei miei sogni che comincia però ad assumere le dimensioni di un affascinante incubo. Si tratta di una figura fantastica, o meglio: di unancella anzi di una ninfa classica con un piatto di meravigliosi frutti esotici sulla testa che entra nella stanza sventolando il suo velo. Mi chiedo se sia questo il modo di entrare nella camera di una puerpera. No, neppure per fare gli auguri. Che cosa significa allora questo modo di camminare leggero e vivace e al contempo molto movimentato, questo energico incedere a lunghi passi, mentre le altre figure rivelano una qualche intangibilità? [...]. Le altre figure sono ferme, oppure camminano su un duro pavimento in cotto tipicamente fiorentino. Quello della mia amata sembra perdere invece la naturale caratteristica dimmobilità per assumere unelasticità ondeggiante, quasi fosse un prato inondato dal sole primaverile, un terreno fluttuante simile agli spessi cuscini di muschio di un ombroso sentiero verde nel bosco. Anzi mi appare addirittura fluttuante come qualcosa di sovraterreno […]. Può darsi che mi raffiguri questa figura più poetica di quanto veramente essa sia – ma quale amante non fa ciò? Certo è che, quando lho vista per la prima volta, ho avuto la strana sensazione che ci pervade talvolta quando guardiamo un cupo paesaggio di montagna, quando leggiamo dei versi di un grande poeta, oppure quando siamo innamorati. Insomma, mi chiesi Dove mai ti ho già visto?”. Ho avuto la sensazione che fin dallinizio ci legasse una conoscenza precedente, che vi fosse qualcosa di mistico.

La lettera di Jolles, sottolinea Cometa, rappresenta il viatico di tutta l’indagine successiva di Warburg, il motivo del passato che ritorna, delle sopravvivenze di immagini fuggevoli e segrete, del desiderio che attraversa tutto come un fantasma. Attraverso linnamoramento di Norbert Hanold scorgiamo linnamoramento di Warburg e Jolles e anche quello di Freud.

Nel pensiero di Lacan loggetto misterioso che sinsinua nellesperienza della visione, sfuggente e spesso eluso”, è lo sguardo stesso che appartiene al soggetto come mancanza, come ciò a cui il soggetto dovrà eternamente aspirare. È interessante ricordare che nella tavola colma di dottissimi riferimenti iconografici dedicata alla Ninfa si trova anche una foto personale che ritrae unanonima contadina di Settignano mentre avanza lungo una strada rurale. Questa riflessione sullo sguardo come qualcosa che di se stessi sfugge e che conduce fuori di sé là si ritrova anche nel pensiero di Walter Benjamin. In Cronaca berlinese (1932) il filosofo tedesco scrive:

Niente impedisce che ricordiamo con più o meno precisione stanze in cui abbiamo trascorso ventiquattrore, e che ne dimentichiamo completamente altre in cui siamo stati per mesi. La mancata comparsa di unimmagine sulla lastra della memoria, quindi, non è sempre da ascriversi a un tempo di esposizione insufficiente. Sono forse più frequenti i casi in cui la penombra dellabitudine nega per anni alla lastra la luce necessaria, finché un giorno questa spunta fuori improvvisamente da sorgenti ignote come da polvere di magnesio incendiata, e fissa ora sullo spazio della lastra limmagine di unistantanea. Nel centro di queste rare immagini, però, ci siamo sempre noi stessi. E ciò non deve stupire, poiché tali attimi di esposizione improvvisa sono anche attimi dellessere al di fuori di noi stessi, e mentre il nostro solito io cosciente e vigile interferisce in ciò che accade trafficando e penando, quello più profondo riposa in altri luoghi, ed è colpito da uno shock come il mucchietto di polvere di magnesio dalla fiamma del fiammifero”.

Lo sguardo, come scrive Berger in Questione di sguardi, è sempre un rapporto tra noi e le cose; la nostra visione è costantemente attiva e costantemente mobile:

Quando diciamo che riusciamo a vedere quella collina là in fondo, non facciamo che affermare che da quella collina è possibile vedere noi. Più radicalmente del dialogo verbale, per sua natura la vista si basa sulla reciprocità e incorpora un modo di vedere.

Il corpo, la biologia, le interazioni tra sguardi e corpi sono argomento della parte conclusiva del saggio e degli ultimi lavori di Michele Cometa, Perché le storie ci aiutano a vivere (Cortina, 2017) e Letteratura e darwinismo  (Carocci, 2018), in cui l’autore sottolinea come l’immaginazione sia l’evento cognitivo caratteristico dell’evoluzione dell’Homo sapiens. Le immagini sono capaci di produrre reazioni sociali, peraltro sempre più macroscopiche, riattivando antiche paure e esperienze di dolore o anche antiche estasi. Le questioni sullanimismo e sulla vita e il potere delle immagini sopravvivono ancora adattandosi ai nuovi paesaggi iconografici e mediali e ci spingono a interrogarci sulle prospettive future della cultura visuale.
L’arte e la letteratura consentono di vivere situazioni che sono state vere in passato e che non sono vere nel presente o saranno probabilmente vere in un luogo non tanto lontano o in un tempo a venire. Come scrive Charles Simic in La vita delle immagini guardare le immagini ci avvicina all’enigma dell’ordinario, a qualcosa che non vediamo, “ in un punto dove, sospettiamo, noi stessi appariremo un giorno, altrettanto frettolosi ed effimeri”.

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