19 Apr L’île réveillée
La mia prima sigaretta mi ha dato voglia di piangere. Per un attimo mi sono vista bambina, dietro la schiena di mia mamma: provo a stringerle il braccio appena sopra il gomito, lei lo solleva bruscamente nell’aria per rifiutare il mio contatto; intanto parla con qualcuno che le sta davanti. Non si volta a guardarmi.
Il magone è durato pochi secondi; poi ho iniziato a tossire e ho fatto per cedere la sigaretta. Davide, di fronte a me, ha sorriso. “Se ti gira la testa è normale”, ha detto.
Avevo quattordici anni e da quel giorno sono fumatrice. Più del gusto mi piace l’odore. Mi piace sentirlo soprattutto sulle dita, nei primi minuti dopo che ho spento la sigaretta – mi dà calma. Poi si fa sgradevole, a freddo: sa di posacenere. Se per caso avvicino la mano alle narici e lo avverto, subito la scosto. Però mi resta nel naso, l’amaro secco; mi toglie gli altri odori.
Voglia di piangere, non è più accaduto. Fino alla faccenda dell’isola.
L’ultimo anno di liceo io e i miei compagni abbiamo avuto una supplente in storia e filosofia.
La supplente non mi è mai sembrata umana. Entrando in classe iniziava subito a parlare, si muoveva tra i banchi e gesticolava, come se fosse sempre il suo primo giorno sul pianeta. Non mi riusciva di associarla a niente di già noto: quando alzava le braccia in un certo modo, quando chiudeva gli occhi e li riapriva in un altro, mi chiedevo perché. Ero spiazzata dai movimenti minimi. E le espressioni sul suo viso, le definivo mistiche – tra me e me: per gli altri erano solo molto strane.
Io a scuola non prendevo appunti. Nel banco più isolato in fondo all’aula, accanto alla finestra, disegnavo per ore. Che non ascoltavo era chiaro. Lei lo sapeva: dalla cattedra mi seguiva la mano, convulsa intorno alla matita. Non sembrava infastidirla; quando alzavo gli occhi dal foglio, la sorprendevo spesso a fissarmi: aveva come un guizzo, nello sguardo, vivacissimo e impaziente. Io arrossivo, agitavo le gambe sotto la sedia. Per l’ansia, i miei disegni deflagravano. Allora mettevo via i fogli, e finivo per prendere appunti insieme agli altri.
Una mattina mi fermò sulla porta, mentre uscivo dall’aula durante la pausa. Domandò se fossi brava in matematica. Negai con la testa. “Peccato”, disse, “ti avrebbe aiutato a mettere ordine”. Poi intravidi il guizzo, nel suo sguardo, di colpo accenderla. Ma da vicino l’effetto era diverso. Risaliva dal fondo nero dei suoi occhi, come a rallentatore. Prima di lasciarmi andare, aggiunse allegra: “Dovresti disegnare la tua isola mentale”.
In cortile fumai come sempre seduta in terra, la schiena poggiata contro la facciata esterna della scuola. Ebbi un capogiro, per un attimo. Aspirando di nuovo, il fumo mi lasciò sulla lingua un’amarezza diversa dal solito, più invadente, che asciugava la saliva. I corpi dei compagni intorno a me mi parvero all’improvviso molto grandi, come allungati. Riempivano lo spazio. Si muovevano a scatti, tagliando l’aria. Sentii un crampo in mezzo alla gola secca. Lasciai la sigaretta fumante in terra, rientrai nel corridoio.
A disegnare l’isola, ci provai. In tarda serata, sotto le coperte, la tratteggiai nel pensiero. Mi venne in mente un castello con tante torri, solenne in mezzo all’isola di sabbia. Tentai subito di rimuoverlo: era un’idea banale. Ma quello si imponeva. Come nei sogni morbosi: si fa per spostare un oggetto, l’oggetto resta fermo.
La notte sognai di correre su una spiaggia assoluta. Nient’altro che sabbia, in tutte le direzioni, fino all’orizzonte massimo. Al posto del cielo, il mare. In mezzo al mare, torri di ferro, sospese in giù. Correvo e poi inciampavo, ruzzolavo a terra. Supina, guardavo in alto. I piani si erano invertiti. Ora la sabbia sotto la schiena era mare e il mare sabbia. Dal cielo granuloso venivano giù cascate di polvere gialla che mi accecavano e che io ingoiavo, pigramente, senza soffocare. Poi una mano grande e ruvida, proveniente da qualche punto intorno al mio corpo, prendeva a carezzarmi una coscia, su e giù, con l’intero palmo. Io a sentirla gelavo.
Il giorno dopo andai a scuola con la febbre. All’ultima ora c’era lezione di storia. Mi trattenne di nuovo, la supplente, al suono della campanella. “Come procede l’isola?”, domandò, “L’hai fatta bella? C’è il mare intorno?”. “Il mare è sopra”, dissi. Fece un grande sorriso con tutti i denti luminosi. “Lascia affiorare quello che viene. Sei mai stata ai tropici?”. Risposi di no, ma invece sì. Ci sono stata, avevo forse sei anni. Mi è rimasta memoria di una gita in barca. La casa che avevamo affittato dava direttamente sulla spiaggia. Da lì eravamo partiti per visitare un isolotto a qualche chilometro dalla riva. Ci aveva traghettato il proprietario del mezzo, uno del posto. La pelle color ebano, i grandi denti macchiati di catrame, non faceva che parlare, nel suo francese storpiato. Alla mamma piaceva tanto: si lasciava offrire sigarette e bicchierini di Rhum, sorseggiava e poi rideva. Io la guardavo e a mia volta ridevo. Il papà filmava noi e il mare. Ripercorsi queste immagini mentre tornavo a casa da scuola, non ricordavo altro. Per la composizione della mia isola forse avrebbe aiutato.
Mi ci dedicai di nuovo, quella sera, tra la veglia e il sonno. C’erano elementi che chiedevano di partecipare, come le torri del castello. Allora li assecondavo, un po’ controvoglia. Una bottiglia di vetro opaco sui ciottoli in fondo alla spiaggia, un costume stropicciato e umido. Mi seccava questo gioco. L’isola si costruiva da sé, io decidevo poco – come nei sogni.
Sognai l’isola, ancora. Questa volta c’era anche la mamma. Io seduta sulla sabbia la seguivo con gli occhi, un po’ in apprensione, mentre lei aspettava il momento giusto per buttarsi nelle onde che arrivavano a riva. Piangeva dal ridere, riemergendo in superficie, e continuando a ridere usciva dall’acqua; camminava maldestra, un po’ storta, come fosse ubriaca. Poi una voce alle mie spalle mi chiamava. Era Jean, il traghettatore nero. Con la mano indicava le noci di cocco in cima alle palme, in fondo alla spiaggia. Voleva che imparassi ad arrampicarmi. Gli andavo incontro di corsa. Ma una volta raggiunta la sua figura non mi fermavo, avevo voglia di giocare; superavo lui e la prima fila di palme, e m’inoltravo nella foresta tropicale. Jean rideva, dietro di me, m’inseguiva.
Mi ritrovavo supina, alla fine della corsa, in mezzo a centinaia di alberi che erano palme, ma altissime: non vedevo le cime. Jean, seduto accanto ai miei piedi, parlava e fumava. Si asciugava i rivoli di sudore sulla fronte con il dorso della mano, e poi asciugava il dorso della mano sulle mie gambe. Avrei voluto dirgli di non farlo, ma parlava. Con una mano teneva due sigarette, infilate tra dita diverse. Aspirava un tiro da una e poi dall’altra, di seguito, senza prendere fiato. Con la mano libera mi strofinava la coscia, appena sopra al ginocchio. Io guardavo in su. A osservarli attentamente, i tronchi delle palme sembravano fatti di roccia, o di metallo. Jean non parlava più. Con la coda dell’occhio lo vedevo a un tratto sfilarsi il costume ancora umido, notavo le cuciture intorno alle tasche sbiancate dall’acqua salina. Dopo averlo tolto, di scatto se lo infilava in testa, come un cappello, e io scoppiavo a ridere. Jean non rideva, era molto serio. E molto serio si piegava sopra di me e prendeva a leccarmi tutto il viso, con metodo, freddo e veloce. Io sentivo sulla pelle e in bocca il gusto amaro della sua lingua, e soffocavo nel puzzo di fumo secco del suo fiato affannato. I tronchi intorno a noi assistevano con distacco, aguzzi e incrollabili. Jean continuava a bagnarmi le guance, gli zigomi, la palpebra inferiore e poi quella superiore. Perché finisse in fretta lo agevolavo tenendo gli occhi ben chiusi. Intanto con le dita mi esplorava il corpo dall’alto in basso. Ma arrivato sotto l’ombelico, scostava la mano dalla mia pelle. Credevo avesse concluso. Pensavo questo con un getto lacerante di sollievo. Poi subito tornava la percezione della sua mano, che aderiva ora all’umidità interna del mio costume, tra le gambe. Allora si liberava un grido – lo sentivo echeggiare in tutto il corpo, come una vibrazione profonda, dentro e fuori di me. Era mio e non mio – arrivava da lontano, da una voce di me più antica. Non so come, riuscivo a ruotare su me stessa ritrovandomi a pancia in giù, gli occhi piantati nel tessuto di erba sopra le radici degli alberi. Li aprivo e cadevo, dentro la terra.
Di nuovo ero in spiaggia. La mamma, seduta a pochi passi dalla riva, discuteva a voce alta con mio padre. Andavo verso di lei, le gambe tremolanti, rallentate dagli affondi nella sabbia. Una volta raggiunta la sua schiena, le afferravo il braccio appena sopra il gomito, lei lo alzava bruscamente nell’aria per respingermi. Non si voltava a guardarmi.
A scuola disegnai assorta nelle prime ore. Dopo la pausa, c’era la supplente. Non la guardai, neanche quando varcò la porta all’inizio della lezione. Segnai qualche appunto sul foglio; ci fu un momento di silenzio, nella classe: alzai lo sguardo verso la finestra. Allora la vidi, nel riflesso del vetro in diagonale: seduta dietro la cattedra, mi osservava. Io strinsi la matita intorno alle dita. Lei fece un sorriso molto grande.
Biografia di Sharon Vanoli
Nasce a Bergamo nel 1994. Vive tra una valle di montagna e la periferia di Milano, dove studia Lettere Moderne. Suoi racconti sono apparsi su L’inquieto, Neutopia, inutile, Risme e L’Elzeviro. Interessi compulsivi: camminare, pensare, fumare, scrivere, leggere, la natura, la musica, le visioni – tutto confuso e mischiato.
Vanessa C.
Posted at 16:48h, 26 AprileQuesto racconto mi ha rapita sempre di più, di parola in parola. Si sente sentimento tra queste righe. Riesco a provare le emozioni che vengono descritte. Si sente la vita. È come se l’autrice avesse preso parte della sua anima e l’avesse spremuta sulle pagine di questo racconto. Un’anima che si rigenera, che non resta mai asciutta seppur la si sprema sui racconti. Grazie all’autrice di questo testo per avermi regalato questi momenti di intimità con me stessa.
Chiara Sala
Posted at 18:04h, 19 MaggioHo avuto un brutto presentimento già al punto in cui si parla della gita in barca. Mi sono accorta che stavo trattenendo il fiato perchè quando l’ho ripreso ho avuto un lieve giramento, come alla tua prima sigaretta. Una cosa è certa, sai stregare il lettore che, povero burattino, una volta iniziato un tuo racconto non può più staccarne lo sguardo, fino alla fine.