29 Mar I Gatti, la Primavera e i misteriosi fiori del Noce
I Gatti, la Primavera e i misteriosi fiori del Noce
di Roberta Schembri
Uno dei verbi meno utilizzati in quest’avventura del virus è “bussare”.
In siciliano “tuppiari”.
Non ci si sposta, non si va a trovare gli amici. Nessuno bussa: è una delle tante azioni momentaneamente accantonate.
Girovagando da sud a nord, in friulano, addirittura, “bussâ” vuol dire “baciare”, verbo tristemente ancora più accantonato.
Se frugo nei ricordi delle prime estati, sento le voci quasi all’unisono delle mie tre zie di via Quasimodo, una piccola traversa di San Leone, la zona di Agrigento più vicina al mare: “Robè, tuppìa e grapi”. Bussa e apri.
Solitamente al Sud funziona in questo modo: raramente occorre annunciarsi o, ancora meno, mettersi d’accordo per tempo per farsi visita.
Forse perché ci si conosce quasi tutti, forse perché in casa c’è sempre qualcuno. Forse perché c’è sicuramente una caffettiera sul fuoco che sta per dare il meglio di sé.
Spesso il citofono viene utilizzato solo per il pulsante di apertura, senza mai chiedere: “Chi è”. Si apre e basta.
Retaggio -chissà- di un senso di ospitalità arcaica, dove lo straniero era sempre il benvenuto, dove il nuovo mai arrecava minaccia ma più spesso portava meraviglie.
Proprio come una Primavera.
Neanche lei in genere bussa poi tanto, non bacia neppure troppo delicatamente: regala giusto qualche accenno tra gennaio e febbraio, per poi a marzo fare definitiva irruzione. Un travaglio veloce: la primavera la si riconosce per il parto irruento e precipitoso.
Eppure, se togliessimo il sonoro moderno per qualche minuto -niente traffico, niente fabbriche, niente allarmi, niente suonerie- potremmo sentirlo, lo zoccolo di Pan, dell’Ariete, che bussa, che tuppìa dal piano di sotto a quello di sopra.
Per ogni germoglio, per ogni filo d’erba, ce ne vuole di determinazione per venire su. Per ogni nascita e rinascita, la crosta terrestre deve spaccarsi e aprire le porte.
Del verbo bussare se ne incarica etimologicamente il Noce, il buon caro vecchio Juglans regia: la parola “nocca”, parte della mano con cui bussiamo, deriva proprio da nux, nou (da cui anche nodo, nuca).
In inglese, a partire dalla stessa radice, il verbo si fa onomatopeico: knock-knock.
C’è stato un tempo in cui gli alchimisti speziali prescrivevano l’estratto di noce, a dir poco astringente, alle persone bisognose di proteggere i propri pensieri e le proprie emozioni. Segreti, passioni, turbe. Ma anche sogni di libertà, di gloria, tensioni puberali: a passare per pazzi maniaci ci si metteva un attimo, bisognava stare attenti.
La fioritura del Noce, albero di tradizione generosa e non a caso stregonesca, è un fenomeno che solitamente passa abbastanza in sordina. I suoi non sono fiori vistosi, non devono attirare nessun insetto: il Noce si affida al vento, alle correnti, a un destino più grande di lui.
In ogni tipo di opolline anemofilo, l’albero si fa esule.
Colei che custodisce simbolicamente la forza del Noce, colei che ci bussa nel sangue per rinvigorirci è L’Imperatrice dei Tarocchi, rappresentante ufficiale della Primavera, con il suo scettro che le germoglia in grembo.
L’Imperatrice me la sono sempre immaginata seduta su un trono in mezzo ad una radura, circondata da noci in fiore e da ruscelli in corsa.
Gli alchimisti forse avevano ragione: le idee nuove, le ispirazioni, le intuizioni, vanno sempre protette, come nuove gravidanze, nuove amicizie, nuovi storie. Come nuove fecondità.
Ci sono momentanee solitudini che vanno celate al mondo, la natura lo sa bene. Solo dopo averle rafforzate, possiamo autorizzare il lancio spaziale e farle correre in mezzo al tutto.
Le donne istintivamente lo sanno. Forse perché l’utero è la nostra scatola dei segreti.
Quando sentiamo un nuovo amore farsi strada nella nostra vita, lo custodiamo. Quando scriviamo un nuovo pezzo, o progettiamo un blog, o vogliamo anche solo un taglio di capelli nuovo, aspettiamo a dirlo.
Non abbiamo quasi mai progetti chiari, ma li abbiamo.
E ad un certo punto sappiamo aprire i pugni e affidare i pollini al vento, come il Noce.
Nel frattempo, facciamo le raccoglitrici, le collezioniste: utilizziamo i panni elettrostatici mica solo per la polvere. Ci colpisce quasi tutto, a noi gazze ladre del vivere, e raccattiamo tanto di quel materiale che non tutte le sere facciamo in tempo a selezionare, per preparare la differenziata per l’indomani.
Psiche aveva le sue formichine lì pronte ad aiutarla, a dividere i semi dalla crusca, ad affrontare la prima prova per ricongiungere la sua vita ad Eros; noi siamo fortunate se possediamo un’agendina tascabile e i post-it colorati.
Santa pazienza, quanta fatica.
Ma poi per fortuna arrivano sempre quei momenti nitidi, di una lucidità assoluta, semplici, veri. Che fanno da diavolina, da accendi-miccia a tutti gli appunti che abbiamo dentro, a tutti i pollini, a tutto il senso.
La grandissima Laura Lepetit, la libraia intellettuale che fonda nel 1965 la coraggiosa casa editrice La Tartaruga, nel suo Autobiografia di una femminista distratta immortala momenti significativi eppure semplicissimi in ogni capitolo del suo libro, forse ad ogni capoverso.
Come quando racconta di un pranzo a Viareggio con l’elegante Cesare Garboli, in un ristorante in riva al mare:
“Alla fine del pranzo Cesare fece un bel cartoccio con gli avanzi dello squisito pesce che avevamo mangiato e se lo ficcò in tasca. Tornati a casa fummo circondati da cinque o sei gatti di tutte le taglie e colori che erano arrivati festanti e di corsa. Si buttarono sul contenuto del cartoccio che sparì in pochi secondi.
Io ero molto ammirata dalla disinvoltura con cui il mio ospite aveva fatto qualcosa che io non avrei mai osato fare in un ristorante così distinto. In effetti, del grande letterato, fine scrittore, critico ineguagliabile e seduttore convinto, conservo affettuosamente questo piacevole ricordo”.
Forse la Primavera non è altro che uno scrigno uterino di azioni come queste, di venti carichi di alberi che amano l’aria e irritano gli allergici, di mazzi di tarocchi, di pozioni alchemiche al succo di erba fresca e di gatti che bussano ai portoni di tutto il mondo.
Ai ristoranti di Viareggio, al citofono delle mie zie di via Quasimodo e, in fondo, su tutto quello che gli pare.
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