ANNA MARIA ORTESE: PICCOLE STATUE VIVENTI NE L’INFANTA SEPOLTA

Anna Maria Ortese: piccole statue viventi ne L’Infanta sepolta

DI GIOVANNA DI MARCO

IMMAGINI DI O’TAMA KIYOHARA

 

 

Atmosfere oniriche, viaggi solitari nella fantasia e figure che prendono altre forme popolano la raccolta di novelle dal titolo L’Infanta sepolta di Anna Maria Ortese. Quest’opera giovanile, la sua seconda silloge edita, delinea già la poetica successiva dell’autrice. Le voci narranti che si avvicendano parlano soprattutto di ricordi di quel periodo al limite tra l’infanzia e l’adolescenza. È la memoria dunque a tracciare il percorso, una memoria fatta soprattutto di luoghi e descrittiva quasi sempre della città elettiva per Ortese: Napoli. Napoli teatrale, spettrale, eccessiva, ben si presta a questo incontro tra fantasia e realtà o trasfigurazione della realtà. In due delle novelle che compongono la raccolta assistiamo al prodigio di sculture che prendono vita: nel racconto che dà il nome alla raccolta e nel racconto dal titolo Grande via che invece la conclude. Le memorie, agganciate a ricordi adolescenziali, segnano il tracciato di eventi prodigiosi e fantastici.

 

 

Nella prima novella si prende in considerazione la descrizione della piccola statua nera della Signora di Montemayor, che proviene dalla Spagna secondo una tradizione del secolo precedente. L’Infanta non è una principessa spagnola, ma una piccola regina: la statuina di una Madonna nera, dimessa, reclusa nella sua grotta. Il culto mariano di tutti i visitatori protende però verso un’altra effigie di Maria dentro la stessa chiesa: una Madonna da portare in giro in processione e a cui donare ex voto. Ma la fervida fantasia dell’autrice, trasposta nei suoi ricordi fanciulleschi, si concentra sulla scultura che “non piaceva a nessuno”, solitaria e abbandonata dai più. L’atto preparatorio alla meraviglia è fornito dalla descrizione dell’esterno della chiesa che custodisce la statuina, un luogo anch’esso dimesso, rappresentato da una facciata simile alle altre in un povero vicolo, distinta però da un cancelletto verde “ritto davanti alla porta. E che sembrava vigilare affinché il sole e la luce, come il tumulto e la perversità del mondo, non potessero accedere a quel luogo santo”.

E l’ingresso in chiesa, tra ceri, panche nere, cornici e volti santi ci conduce all’immagine:

“Irrigidita in una veste di sete turchina, di cui l’ampia gonna le ricopriva i piedi fasciati d’oro; velate fronte e spalle d’un manto splendido, leggermente più pallido della veste, e scintillante di lune e di soli d’oro, sedeva su uno scanno nero, reggendo sul braccio destro una specie di tubo di raso bianco – il Figlio – anch’esso regalmente vestito, e la cui testina nera, piccolissima, emergeva da quel tubo come cosa morta.

Lei no, lei, l’Infanta, era viva!

Nero il suo volto dai contorni acerbi e gentilmente allungati, nere le mani pari a zampine d’uccello, nere le trecce, neri gli occhi che ardevano sotto quella rotonda fronte. Dolore e un rapimento funesto li animavano. Erano occhi che pensavano, che ricordavano, che chiedevano; occhi spesso veati dalle memorie, distrutti da un desiderio arcano, abbagliati da canti remoti, da gridi di gioia, che lei sola, l’Infanta, poteva ascoltare. Un’indifferenza assoluta per Fanciullo che portava sul braccio, morto come chi non è mai nato; un fastidio, un orrore educatamente contenuti per quel luogo chiuso, allucinato, dove la sua giovinezza di idolo si consumava”.

L’Infanta dunque è viva. La fanciulla le si avvicina, ne arriva ad avvertire i palpiti e addirittura in seguito riesce ad ascoltarne le parole. Si tratta di una figura legata, come imprigionata. Il cuore le batte come quello di un animale prigioniero, le sue mani sono appunto simili a zampine di uccello (e anticipa già la tenerezza placida della bestiole che sarà tanto cara a Ortese). Balbetta qualcosa di sofferto, vuole uscire, vagare, vuole conoscere notizie del vento. E, improvvisamente, come durante i sogni, la fanciulla si stacca dalla sua mano per correre fuori dalla chiesa che intanto si è popolata di streghe laddove c’erano, poco prima, delle panche nere. È chiara l’identificazione tra questa regina adolescente e la ragazzina che ne viene suggestionata: come questa manifesta una spiritualità personale che poco si sposa con l’ordinario degli altri fedeli, così la giovane donna-statua è madre senza desiderare la maternità, la sua voce è dissonante all’effigie. Come anticipato all’inizio del racconto, la chiesa crollerà, la statua sarà immaginata a pezzi, dunque forse liberata visto che “Vi sono sciagure teneramente invocate, tristezze che danno pace”.

 

 

L’altro racconto evoca anch’esso fantasie fanciullesche e ci prepara alla visone finale di piccole statue con l’atmosfera al calar della sera, in un’ora mistica, quando una bambina, stavolta, attraversava la grande Foria:

 

“Maestosa e selvaggia via! Fiume di pietra, bastimento colossale ancorato tra rive di silenzio, dove si scorgono passeggiare gli eterni Simboli e le struggenti idee”.

 

Dopo che, fuori dalle botteghe prendevano vita le copertine dei libri, florilegio dei migliori classici e l’immaginazione del passante era ormai “trafitta e turbata”, apparivano le bianche presenze: statue di gesso realizzate dagli artigiani per tombe di ragazzini di un cimitero vicino. Ma anche qui la fantasia dirompente trasforma la realtà: “Nessuno tolse a me di mente che, piuttosto che simulacri, quelle figure di pietra bianca o di gesso fossero qualcosa ben più vivente”.  Le figure che si avvicendano sono parecchie: “Un gruppo di questi scolari, completamente nudi, come appena tolti dal letto, formavano una siepe di corpi sottili, di avide facce recline e incantate intorno a un giovane compagno che, seduto, un libriccino disteso sulle ginocchia magre, pareva intento a leggere non so quali favole e bei canti. La bocca del fanciullo era semiaperta, ma i suoi occhi vuoti e solo alcune lagrime, anch’esse di gesso”. E la commozione arriva al suo culmine quando si descrive un giovinetto condotto da una fanciulla verso un sentiero sconosciuto:

“Pareva che fiumi e monti e limpide acque e turchini cieli e alberi frequentati dal vento e mormorii di fronde; e giorni di corse sulla collina e luminosi riposi e beate carezze materne; e il focolare e la scuola e la sua infanzia serena fossero al di là di quella porta ch’egli aveva varcato e lo chiamassero […] Ma già nei suoi poveri occhi si era asciugata la pupilla”.

Anche in questo caso, intrappolati come anime dentro la materia, questi simulacri agognano l’esterno. Ma questo afflato si blocca nel gelo del marmo, del gesso, ritorna in sé allo stato freddo della sua consistenza che ha un corrispettivo con la rigidità dei corpi morti che rappresentano.

Queste immagini di adolescenti trovano identificazione con il sentire dell’autrice, rivolto verso una sensibilità altra, curiosa, frenetica e attratta in modo divergente rispetto allo sguardo che si posa ovvio sulle cose. Se nel primo caso la statuina della Madonna nera stimola una suggestione verso qualcosa di sacro attraverso una linguaggio religioso personale – quasi un ‘idioletto’ – fino all’identificazione della fanciulla con l’Infanta nera, nel secondo le figure che riprendono la naturalezza dei morticini reclamano la vita che non tornerà. Ma, in entrambi i casi, queste osservazioni sulle forme plastiche si allacciano al più grande problema filosofico di Ortese: la sofferenza. Le figure intrappolate nelle forme della materia reclamano infatti la libertà, la natura, i fenomeni atmosferici, la vita. Dunque, in senso più ampio, rientrano nei grandi temi che l’autrice snocciolerà in opere più composite, restando poco apprezzata al suo tempo perché, poco incline a suonare “il piffero della rivoluzione”, approderà deliberatamente a forme di denuncia delle ingiustizie ben oltre il dato transeunte della storia. Come gli Schiavi morenti di Michelangelo queste sculture vivono il dilemma tra materia e spirito, ma in un universo del piccolo, del palpito crepuscolare. Cogliere voci dalla pietra, dalle statue è farsi suggestionare dalla sofferenza degli ultimi, dal dolore inascoltato che ferisce solo chi è predisposto a vederlo, e che, come un traghettatore di anime, afferma in modo evidente:

“Può darsi che tutte queste cose non fossero che fantasticherie, torbide supposizioni di un cuore che, ieri come oggi, è portato a vedere dovunque dei prigionieri, a riconoscere in ogni albero un carcere di spiriti ardenti, in ogni caso una cella infame, dove qualcuno arde e si lamenta”.

In una poetica delle piccole cose e dell’immaginifico ciò che non è visibile agli occhi si mostra urgente e parla, grida contro il mutismo cui è costretto; trasfigura la realtà per ribadire strane varianti dello spirito che soffre. Sono ultime e inascoltate anche quelle anime costrette alla violenza di una statica freddezza. Rivendicano a pieno titolo il loro diritto alla libertà, all’immaginazione, al ricordo.

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