26 Apr Ode all’amata di Saffo
Ode all’amata di Saffo
Sotera Fornaro illumina un sentiero poetico
Intervista a cura di Paola Del Zoppo
La casa editrice Mucchi pubblica, con la direzione attenta di Antonio Lavieri, una collana di eccezionale importanza critica per gli studi di traduzione: DieciXUno – una poesia dieci traduzioni. Ogni volumetto presenta una poesia o un brano poetico noto, dandone una lettura tramite la storia critica e culturale delle traduzioni del testo. L’operazione di Lavieri per Mucchi Editore è convincente anche nella sua apertura ai lettori, cosa quantomai importante in un momento in cui – di nuovo – si avverte una pericolosa e falsata distanza tra lettori considerati comuni e lettori considerati “non comuni”, distanza accentuata strumentalmente da e per pratiche di diffusione soprattutto legate alla “scena social” degli scrittori e dei traduttori.
L’ultimo volumetto uscito per la collana, L’ode all’amata di Saffo, a cura di Sotera Fornaro, è affascinante, ricco di suggestioni e congiunge riflessione e pratica della versione poetica in maniera organica e misurata. La curatrice, Professoressa di Letteratura Greca all’Università di Sassari, studiosa del teatro greco e dell’Antigone in particolare, attenta lettrice dei fenomeni contemporanei anche grazie alla lente della classicità (assolutamente da seguire è il sito/blog Visioni del Tragico), riflette, nella prefazione tanto quanto nella giustapposizione critica delle versioni, su tutte le sfaccettature della versione poetica, dall’interpretazione, alla riscrittura alla citazione e ai concetti di lealtà e fedeltà al testo di partenza. In aderenza al progetto della collana, Fornaro propone nove versioni di diversa ispirazione che rivelano il rapporto tra traduzione e scrittura come principio vivificatore culturale. La decima versione, come è nel dettato della collana, è della curatrice stessa, che nel suo coraggio di sperimentare ci dona una eccellente e originale Nachdichtung, commossa e leale. Sotera Fornaro ha dialogato con noi sul testo da lei curato, aprendo finestre ancora più ampie, con esemplare generosità.
Nella tua introduzione ai testi, così appassionante, narri la storia dell’Ode all’amata per aprirci lo sguardo sul senso e la portata di una “traduzione” nel rapporto con la “tradizione”. Il percorso si snoda tra riflessione sull’atto traduttivo, scelte di riscrittura e interpretazione. Non è ovviamente possibile, nel poco spazio di un’intervista, tracciare l’articolata ricostruzione, ma vorrei che partissimo dal concetto di frammento e di ricostruzione. In che senso, in questo caso, il fatto che l’opera sia giunta incompiuta ha posto i traduttori di fronte a un “enigma traduttivo”?
Credo che il motivo sia abbastanza semplice: non conoscendo la conclusione dell’ode, possiamo perderne il senso generale. Quindi chi traduce deve compiere comunque un atto interpretativo, in un certo senso deve tradurre l’assenza, deve tradurre il silenzio. Deve riuscire a tradurre una lacuna materiale che sinora rende illeggibile la fine del testo. Il caso è tanto più singolare perché la prima traduzione che conosciamo di quest’ode, quella del poeta latino Catullo, finisce con un vero e proprio aprosdoketon, con una sorpresa: l’autore si rivolge a se stesso, e si auto accusa di ‘delirare’. Mette insomma in forse tutto quello che ha detto sino ad allora. Catullo, certo, semplifica più che tradurre, almeno ai nostri occhi: il poeta è infatti certamente geloso della donna. Nell’Ode di Saffo, invece, la situazione non è così chiara. Però vorrei dire qualcosa di più generale, che non riguarda specificamente questa poesia di Saffo e la poesia di Saffo, ma la poesia e la letteratura greca antica. Penso che sia una consapevolezza comune il fatto che noi abbiamo poco dall’antichità cosiddetta ‘classica’, specie dall’epoca arcaica e classica; ‘siamo più ricchi di quel che crediamo’, diceva il più illustre filologo del Novecento, e tuttavia la nostra resta una ricchezza povera. Ci piacerebbe avere tanti testi che sono andati persi, anche perché le motivazioni per cui non ci sono giunti, come nel caso di Saffo, non sono di tipo contenutistico. Ad esempio è possibile che avere l’Iliade e l’Odissea non ci faccia poi rimpiangere tutta la marea di poemi epici che sono andati persi. Ma nel caso di Saffo e dei lirici, oltre ad una certa “censura” della tradizione, vi sono pure motivazioni materiali; lo stesso per tutto il teatro d’età classica, che per noi si riduce alla fine davvero a pochi esempi rispetto a quanto fu scritto e rappresentato. Questo per dire che tutta la letteratura antica ci è giunta per “frammenti”, e questo inesorabile sentimento della perdita accompagna la nascita dei nostri studi, alla fine dell’Ottocento. C’è una bellissima immagine alla fine della Storia dell’arte antica (1764) di Johann Joachim Winckelmann per cui l’antichità sta a noi come un amante che ha lasciato per sempre la sua amata, e che questa vede ancora come un’ombra mentre si allontana in nave. Proprio la nostalgia di quel che abbiamo perduto accresce il nostro bisogno di osservare quel che ci è rimasto, e la nostra capacità immaginativa, perché dobbiamo ricostruire nella nostra mente tutto ciò che crediamo di aver perso per sempre, ma che continuiamo ad amare. Sono consapevole che c’è una grande forza idealistica in questo processo, e che così si corre il rischio di costruire nella mente un’antichità che non è mai esistita, ma che corrisponde ai nostri desideri e ai nostri bisogni. Tuttavia il senso dell’incompletezza non può essere estraneo nemmeno al più positivista degli studiosi, che vuole basarsi solo su fatti e documenti e non sull’immaginazione (ammesso che sia possibile). In fondo chi traduce colma sempre un’assenza, ossia l’incapacità di qualcun altro di leggere un testo in originale. Perché lo fa? Non lo fa per se stesso: il traduttore comprende la lingua che traduce. Ma lo fa per gli altri, per aiutare la loro immaginazione, per colmare la loro nostalgia. Io non sono affatto una studiosa di traduzioni e teorie della traduzione, ma empiricamente posso dire che per chi traduce cerca sempre di immedesimarsi nella nostalgia di chi leggerà o userà la traduzione per l’originale, e che senza questa nostalgia la traduzione non ha molto senso. Penso che questo valga non solo per le traduzioni dai greci, dai latini, insomma da lingue ‘morte’, che non si usano più, ma che valga per qualsiasi traduzione letteraria. Perciò ha senso studiare le traduzioni, perché possono rivelarci proprio i motivi che hanno spinto il traduttore a colmare quella nostalgia per ciò che è perduto.
Citi nel tuo testo introduttivo una riscrittura dell’Ode della bravissima poetessa Anne Carson. In che modo quella riscrittura illumina e rinnova la lettura dell’Ode di Saffo?
Non so ancora rispondere precisamente a questa domanda: per rispondere ho bisogno di studiare ancora. Anne Carson è una voce decisamente importante nella storia non solo delle traduzioni, ma della tradizione dei classici greci e della ricezione. Tanto più importante perché è classicista di formazione e anche di mestiere. Io mi sono incontrata con i suoi libri tempo fa, a proposito di una traduzione dell’Antigone, che si intitola Antigonick e che – come si capisce già dal titolo – non è affatto una traduzione, ma una specie di esegesi continua attraverso la traduzione di uno dei testi più studiati, discussi e interpretati al mondo. Per capire l’operazione di questa poetessa, si può pensare all’inizio dell’Antigone, che forse è più noto di altri testi antichi. Nella tragedia di Sofocle, in scena c’è Antigone che si rivolge alla sorella Ismene: «O comune testa di Ismene, sorella». Un verso che si traduce con molta difficoltà, comunque l’inizio della “traduzione” della Carson è questo: «cominciamo nel buio, e la nascita è la morte di noi». Ismene risponde: «chi lo dice» e Antigone: «Hegel». Ora, non so bene come possa essere chiamata questa operazione, ma è tutt’altro rispetto a quel che chiamiamo traduzione. O meglio, Carson ‘traduce’ non solo un testo, ma tutto il pensiero che si è coagulato attorno a questo testo, o quello che c’è nella mente del traduttore che nel momento in cui traduce Antigone non può che pensare all’interpretazione di Hegel, semplicemente non può liberarsene. Ecco, nella “traduzione” dell’Antigone di Carson, proprio all’inizio, Antigone e Ismene fanno il nome di Hegel, quasi a dire a chiunque: questa tragedia di Sofocle non si può leggere senza aver presente Hegel. Ora, una cosa del genere accade anche con quest’Ode di Saffo, che Carson riscrive, in realtà, non la traduce, leggendola con la sensibilità contemporanea. La poesia è uno spettacolo, chi scrive sta assistendo a qualcosa, come se stesse davanti alla tv, o meglio davanti a un set cinematografico, tutto appare e scompare a seconda delle luci che vengono usate, e l’occhio di chi scrive è quello di chi dirige la camera, che fa un primo piano e poi un altro e poi apre la scena. Insomma, si tratta di una traduzione in una tecnica, quella cinematografica, che è contemporanea, ma non è un’operazione arbitraria: perché a me sembra che Carson entri nel meccanismo della ‘visione’ che sta alla base del testo di Saffo. Mi sembra una lettura indovinata, ecco, in realtà a quest’ode come spettacolo aveva pensato almeno anche un grecista italiano, Antonio Aloni, ma la Carson riesce nel trasferire questo concetto in un linguaggio contemporaneo. Tra l’altro per Carson l’ode inizia proprio dove per noi finisce, nel senso che quello che leggiamo sarebbe come l’introduzione alla vera e propria storia che la sua Saffo comincia a raccontare, guardando nella camera, quando il nostro testo si interrompe. Questo non è filologicamente possibile, però è una bella idea, rispetto a quel che dicevamo prima: la poesia ci lascia una grande nostalgia di quel che non abbiamo e di quel che non sappiamo. Insieme alla sua proposta interpretativa, mi sembra molto convincente anche quella di Claude Calame, che tra l’altro è uno degli specialisti più grandi di lirica greca antica, che ha paragonato il registro linguistico dell’ode a quello di una rapper svizzera. Le due prospettive coincidono: si tratta di vedere quest’ode come una messa in scena. Di cosa? Dell’amore? Della follia? Di una malattia che dà le convulsioni?
Tra le versioni raccolte nel volumetto troviamo un brano tratto da L’isola di Arturo di Elsa Morante. Come mai hai scelto di presentarlo come “traduzione”? Che relazioni vedi tra traduzione e intertestualità, al di là della riscrittura esplicita, parodica o celebrativa che sia? E in che modo il brano di Morante dà una lettura del testo di Saffo?
Nel caso della Morante ho ovviamente privilegiato il senso etimologico di “traduzione”, il trasportare un testo da una cultura a un’altra, da un genere a un altro, tuttavia rispettando quello che continuiamo a chiamare “originale”, il testo di partenza, anche dal punto di vista lessicale. Penso che l’intertestualità sia un procedimento più complesso, non così trasparente come in questo caso: entrare “tra” i testi che sono in rapporto tra loro non è un facile, non è spontaneo. Qui invece chiunque conosca Saffo riconosce il richiamo, che non è nemmeno un’allusione, perché, ripeto, vi sono punti di contatto precisi, in particolare con la bella traduzione che era nota alla Morante, quella di Manara Valgimigli. L’intertestualità, invece, va scoperta, non è così esplicita, e penso che sia anche un procedimento che abbia una qualche validità quando rivela qualcosa di strutturale, di costitutivo in un’opera letteraria. Purtroppo non conosco così bene la Morante, non dispero però che una ricerca possa rivelare altre “traduzioni” da Saffo e forse anche un rapporto di intertestualità fra i due autori. So che Ambra Almaviva, all’Università della Campania, sta lavorando su questo.
Una versione vera e propria, come annunci nell’introduzione, è quella di Jolanda Insana. Si tratta di una versione forse più piana rispetto alle altre che hai scelto, ma la segnalazione dell’operazioni progettuale e filologica è importantissima. Insana, ci racconti a p. 49, traduce tutti i Frammenti incompiuti di Saffo. Vedi uno sviluppo della cultura del Frammento in queste operazioni? In particolare, quali sentimenti Insana tende a rispecchiare o svelare nella sua versione?
Menzionare la versione di Insana era d’obbligo, perché questa poetessa ha fatto di Saffo e delle traduzioni da Saffo un’importante cartina di tornasole della propria poetica. Io non vi vedo però la cultura del “frammento”: mi sembra anzi che Saffo venga fuori dal lavoro di Insana come una personalità poetica ben definita, che ci ha lasciato abbastanza per poter servire da riferimento, modello, archetipo. Per restare a questa sola ode, la traduzione di Insana è in se stessa compiuta, non c’è quel dubbio finale, quell’apertura, quell’assenza di cui ho già parlato prima.
Partendo in un percorso a ritroso dalla lettura della versione, recente, di Jolanda Insana, ho cercato di rintracciare la riflessione dell’aspetto fenomenico del sentimento e del riverbero fisico come restituito nei testi raccolti nel libro (compresi quelli a cui ti rifai nell’introduzione). Quanto conta la manifestazione della fisicità nel testo di Insana? E quanto in altri testi che hai scelto?
A me, la “traduzione” più fisica dell’ode, tra quelle che ho raccolto, pare in verità quella di Alda Merini, che veramente non traduce affatto, ma rielabora, riscrive, riprende, ricrea, ri-performa l’ode di Saffo. Il verso “rumore di pelle sul pavimento” rende persino con il suono il cadere, il venir meno, questa “vita” che va via per poi ritornare subito: la poesia di Alda Merini, L’ora più solare per me, è una poesia molto carnale, molto fisica. Penso che la novità, nel suo contesto originario, della poesia di Saffo sia proprio in questa fisicità esasperata, in questa descrizione di un attacco di male improvviso, che è descritto quasi sadomasochisticamente, questa messa in scena, prima ancora della tragedia, della “pulsione di morte”. Allora ha poca importanza che si desideri morire per amore, o per gelosia, o per follia, ma c’è la contraddizione di voler stare in bilico tra il morire e l’esplosione di vita: insomma, quello che per una donna è l’orgasmo. Ora, secoli di classicismo forse ci impediscono di dire questo, e certo dal punto di vista del ‘metodo’, diciamo così, quello che sto affermando non è proprio ortodosso, e non ho ancora tutte le letture adatte per poterlo affermare: ma quest’ode di Saffo mi sembra proprio questo, l’espressione di un piacere che è contemporaneamente dolore, un’espressione tragica, se vogliamo usare categorie aristoteliche,
Vengo solo ora alla tua bellissima versione, costruita egregiamente su assonanze, ripetizioni, anafore intense. Il senso che si avverte alla lettura è la mancanza di fiato, il sussulto del cuore che si fa sussulto fisico e l’accelerazione del pensiero, per dire solo alcune impressioni di lettura. La soluzione delle anafore date dalla congiunzione “e” così ripetute nel testo, rende anche un senso musicale quasi di fuga, in cui l’affastellarsi di ben 5 versi che iniziano con “e”, per poi presentare simile struttura lessicale, l’accostamento con l’alliterazione in “s” che rende lo sfrigolio del fuoco che avvampa la voce poetica… Il lavoro e il lavorìo della traduttrice qui è evidente, ma avresti la pazienza di raccontare parte della tua esperienza?
Posso dire solo che si è trattato, che si tratta sempre, di esperienza. Non sono un poeta, ho cercato solo di rispettare il testo, non ho il talento per altro, e di rifletterlo in quello che dice a me, dopo le mie letture. Il risultato è molto più sentito che meditato. Si è trattato di un esercizio, piuttosto coraggioso, e se la collana non lo avesse richiesto non lo avrei mai tentato. Credo che sia una delle qualità di questa collana: obbligare chi riflette sulla storia di una traduzione di un testo a tradurre a sua volta. Non è affatto detto che questo accada. Per mestiere commento i testi antichi e insegno letteratura greca servendomi per lo più di traduzioni altrui, ma non mi sono mai sentita obbligata a tradurre per pubblicare testi greci, ho tradotto migliaia di pagine, piuttosto, dal tedesco. Qualche volta la tradizione dei classici può schiacciare, paralizzare, almeno nel mio caso. Non so nemmeno se la “fortuna” dei classici si gioca più grazie alle traduzioni: ci sono state epoche della storia in cui la traduzione dei classici è stata fondamentale per creare l’identità culturale delle nazioni, qualcosa in più rispetto al ‘transfert’ culturale che ogni traduzione realizza. Ma oggi non so più se la traduzione sia talmente necessaria, intendo la traduzione nel suo senso più ovvio. Ri-leggere i classici oggi non significa necessariamente innanzitutto tradurli. Abbiamo bisogno piuttosto di altre forme di traduzione, di trasporto dei classici nel mondo contemporaneo, se vogliamo esprimerne la vitalità, l’attualità. Comunque, ho tradotto solo perché lo richiedeva la collana così ottimamente escogitata da Antonio Lavieri. Inoltre la mia traduzione risponde al filo conduttore del libro: raccogliere traduzioni di donne. Penso che quest’ode sia espressione di una voce femminile, che possa venire rivissuta, ri-performata, solo da una lettrice; credo che l’esperienza fisica che racconta sia propria di una donna, un uomo la guarda con un certo distacco. Forse sbaglio, e molti mi diranno che si tratta di una maniera molto poco metodica di avvicinarsi ad un testo antico e di tradurlo. Ma questa è stata la mia esperienza.
Molta dell’analisi sulle versioni richiama l’enigma della conclusione dell’Ode, che tu hai lasciato aperto. Eppure nella tua traduzione il fiato trattenuto e l’affanno dei versi sembra naturalmente trovare una pausa nella sospensione del verso finale. È stato questo il tuo “pensiero traduttivo”?
In parte ho risposto prima: per me quest’ode mette in scena, performa, un’esperienza fisica, un’esperienza fisica femminile. Credo che finisse in modo sospeso, perché è appunto, per usare un’immagine scontata, la descrizione di un’esperienza che ti lascia “senza fiato”. Poi, per un caso della traduzione, non leggiamo le ultime parole, ma certo si intuisce questo sollievo finale, quasi catartico, questo tornare indietro, per dirla con Alda Merini questo ricomporsi nell’ora “che più mi perdona”. Chi parla ha creduto di morire, si è vista morire, eppure è ancora lì, e sarebbe pronta a ricominciare. Non mi attribuisco nessun pensiero traduttivo. Mi è sembrato che questa poesia, questa famosissima poesia, che tutti dovrebbero conoscere, che tutti conoscono, spero, finisse così anche senza la lacuna finale: con tre puntini di sospensione. Con una sospensione. Con un respiro. Con il cuore che dopo aver battuto forte forte lentamente torna a battere regolarmente. Ma sentire il battito forte del cuore è stato bello.
Nel volume di Fornaro si riflettono di questa intervista la precisione, l’attenzione e la cura nello studio e l’apertura alla condivisione di un’esperienza poetica innanzitutto, ma anche di un esercizio di comunicazione. La ricostruzione del percorso della parola densa di Saffo è essa stessa tradizione e traduzione, e pertanto “dono” ai lettori cui restituisce tutta la bellezza profonda della complessità.
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