27 Apr Tre orfani. Dialogo con Giorgio Vasta
Tre orfani. Dialogo con Giorgio Vasta
a cura di Noemi De Lisi
Immagini di Katina Huston
Tre orfani (Edizioni Casagrande, 2021) è un racconto di Giorgio Vasta ambientato il 12 marzo 2020. È passato un anno dall’inizio della pandemia da Covid-19, ma “passato” a rileggerlo, non sembra il verbo corretto. Si potrebbe dire “è accaduto”, o ancora meglio “accade”. Dunque “accade un anno dall’inizio della pandemia”. È cambiata la nostra percezione del tempo, di nuovo. Nel corso delle vite, infatti, il tempo è la dimensione più empatica e camaleontica. Si adatta alla nostra percezione e allo spazio, e viceversa. Stiamo accadendo da un anno e più in un tempo pandemico. Ieri, oggi, domani, il virus. Si riesce a percepire ancora lo scandire nella conta del tempo? (Conteggio di pura convenzione e praticità sociale, certo). “Alle sei del mattino di giovedì 12 marzo 2020 (…)” comincia così Tre orfani. Le sei di mattina, che potrebbero essere anche le sei di pomeriggio. Un tempo immisurabile che si spande invisibile come una fuga di gas all’interno di una casa; oppure ti prende di petto, come il buio quando apri una finestra nella notte.
Il 2020 ha ridefinito i corpi. Sia immobili che mobili. Gli unici corpi percepiti, adesso, come sicuri, igienizzati, sono quelli privati, le case. Mentre il virus, fuori. Tre orfani è ambientato in un grande appartamento palermitano in via Re Federico 115. Il protagonista, una sorta di simulacro narrativo dello stesso autore, una mattina si rende conto di non essere più solo. Entra in cucina e lì trova seduti il capitano Achab e lo scrivano Bartleby. In una delle sue frasi più celebri, Henry David Thoreau afferma: “A casa mia avevo tre sedie: una per la solitudine, due per l’amicizia, tre per la società.” La triade è il gruppo primario all’interno del quale due elementi possono interagire escludendo l’altro; il primo gruppo sociale, dunque, all’interno del quale si possono creare delle coalizioni. Tuttavia, le relazioni che si creano fra i tre personaggi del racconto non possono chiamarsi coalizioni né delle vere e proprie relazioni. L’io narrante, Achab e Bartleby si muovono come sonnambuli nella casa, ognuno seguendo la propria visione. Achab insegue Moby Dick, Bartleby il suo principio “dietetico” di sottrazione e l’io narrante insegue entrambi, dunque… la letteratura?
I due personaggi melvilliani, Achab e Bartleby, fanno se stessi. Non volevo convocarli nel racconto come citazioni letterarie – come cultura – ma provare a metterli in scena come due pellegrini, due clochard che accidentalmente o necessariamente si ritrovano all’interno di un appartamento all’apparenza incongruo rispetto alle loro storie. Mentre li descrivevo mi accorgevo che Achab e Bartleby, accostati, compongono una paradossale coppia comica: se Achab è aggettante, si protende, irrompe, si sfrena, brancola, trova il senso soltanto nell’esuberanza oratoria e in uno sguardo sulle cose sempre febbrile, come se la sua temperatura fisiologica fosse quaranta e il battito regolare del suo cuore fosse tachicardico, Bartleby invece si introflette, fluttua ectoplasmatico, è filiforme e bradicardico, un corpo che vive sottozero (scrivendo pensavo anche a quei due pellegrini immobili che sono Vladimiro ed Estragone, a quel loro essere così limpidamente grotteschi, e pensavo anche, per Bartleby, a Buster Keaton, e per Achab a Don Chisciotte).
Come giustamente dici, nel racconto Achab e Bartleby non hanno tra loro un vero e proprio legame, e non hanno un vero e proprio legame neanche con la voce narrante. Tutti e tre coesistono, condividono un luogo che però è così ampio da permettere a ognuno di sparire e ricomparire, di perdere di vista gli altri e di essere perso di vista dagli altri; le loro non sono relazioni, al limite brevi e saltuarie intersecazioni. Di fatto, però, alla fine di quel 12 marzo 2020 durante il quale il racconto si sviluppa, la presenza di Achab e Bartleby genera qualcosa che in loro assenza non ci sarebbe stato: un tortino patetico, una specie di dolce-freak, che viene fuori da un tempo nascosto e da azioni altrettanto invisibili compiute dal capitano e dallo scrivano. Penso che quel regalo finale discenda da un mio stato d’animo contraddittorio: se da una parte sono affascinato da tutto ciò che viene generato dalle cospirazioni (da tutto ciò che è costruito con il favore delle tenebre) – che si tratti di un ordigno, di un fiore maldestro o di un tortino grossolano – dall’altra parte ho invece paura, ma forse più esatto sarebbe parlare di sgomento, di tutto quello che prende forma senza che io ne abbia coscienza (quando noto un nuovo germoglio che sbuca dalla terra di una delle piante che ho in casa resto sempre sbalordito). In sostanza, per me una sorpresa è tanto commovente quanto pericolosa e oltraggiosa, perché mi dice che il tempo c’è sempre e che nelle sue profondità, nelle sue botole, nelle sue caverne e nei suoi anfratti c’è sempre qualcosa che silenziosamente e tenacemente si struttura e poi viene fuori. Mi rendo conto che il mio è il turbamento di un padre che non ha avuto figli ma che ha trascorso e trascorre tanto tempo immaginando la gravidanza, immaginando l’inizio della vita dei figli che non ha avuto.
Chi all’interno di Tre orfani dice “io” è attratto e spaventato dall’esistenza dei suoi due coinquilini, e soprattutto dalla disinvoltura con la quale agiscono, con la quale accadono – e forse dunque è attratto dalla precisione del loro destino letterario, perché nel destino dei personaggi letterari – un destino che esprime se stesso in ogni istante della storia narrata – c’è qualcosa di sconvolgente, quella stessa perentorietà ed esattezza che riconosco nei movimenti e nello sguardo di un animale.
L’io narrante vaga all’interno di uno spazio, l’appartamento in cui vive, che è tanto un tempo personale, il cinquantesimo compleanno, quanto l’epoca pandemica, e in nessun modo e in nessun momento sa cosa fare di sé, cosa pensare e come pensare, se ci sia ancora qualcosa da pensare, non sa se entrare in una stanza o uscire da un’altra, se cercare di lavorare o lavarsi le mani, se leggere, scrivere, continuare ad andarsene in giro (non valuta mai, mi rendo conto adesso, la possibilità di andare fuori dal suo appartamento, forse perché per me uscire di casa ha qualcosa di profondamente innaturale). Credo che vagabondando in qualcosa che dovrebbe essere suo, lo spazio domestico, nel quale però sembra avvertirsi come abusivo, gli venga sempre da piangere e da ridere, come può venire da piangere e da ridere a un impostore che sta per essere smascherato, che teme e desidera di essere finalmente smascherato: in quel grumo di pianto e risata trova consistenza ed espressione uno stato d’animo che da qualche anno è diventato per me la norma, il sentimento costante in cui mi trovo.
E allora alla fine la tua ipotesi è giusta: quell’io narrante vagolante, quella voce che vivambula – e qui rubo ad Alessandro Garigliano un verbo bellissimo che si è inventato in un suo libro – scorge in Achab e in Bartleby la capacità di essere contemporaneamente estranei e del tutto coinvolti, avulsi e familiari. E forse, a partire da tutto ciò, riconosce nel capitano e nello scrivano un tratto che credo sia intrinseco alla letteratura: essere sempre straniera e allo stesso tempo interna a ogni cosa.
La voce narrante ha dunque con i suoi due coinquilini un rapporto che definirei di intima lontananza. Il rapporto che si crea – estemporaneo, fulmineo – in una scena di La strada, quando Gelsomina viene condotta nella stanza di Osvaldo, un bambino – scrivo bambino ma in realtà l’età anagrafica di Osvaldo è indefinibile, è un neonato senile, un vecchio puerile: non ha un’età precisa perché Osvaldo è un’epoca – infermo, demente, segreto e segregato, tenuto lontano dagli sguardi, disteso in un lettino, sul lettino un arcolaio che gira, lo sguardo insieme vigile e assente, liquido e cavo. Gelsomina guarda Osvaldo ed è incantata, si riconosce, sente l’intima lontananza che la lega a quel corpo, fino a quando nella stanza fa irruzione una donna che caccia via Gelsomina e i bambini. Perché riconoscersi, in questi casi, non può avere durata e non deve generare conseguenze; l’interruzione brusca non viola il legame che ha preso forma ma lo sancisce, gli dà compimento.
Bartleby, nel suo silenzio perfetto, (a differenza di Achab, che nella sua irruenza farfuglia a volte con se stesso con la sua “voce di catrame”, anche quando sembra rivolgersi al protagonista) fa accadere la sua natura nel modo più spontaneo possibile: comincia a cancellare e-mail, appuntamenti, numeri di telefono, fotografie. Le testimonianze della vita pre-pandemica del protagonista. “Ero rimasto a guardare lo scrivano sfogliare le pagine della mia agenda, ognuna di quelle cancellature con cui poco a poco ricopriva tutto ciò che era stato scrittura, componendo un unico ghirigoro che scorreva da una pagina all’altra” (p. 16). In questo passaggio, mi ha colpito la scelta della parola “scrittura” riferita a degli appunti, o altro, inerente alla vita contingente presi sull’agenda. La lista della spesa, le semplici frasi promemoria, nel loro complesso potrebbero anche essere definite semplice grafia. Invece hai scelto “scrittura”, termine che riprendi più avanti descrivendo la pelle di Palermo, che attraverso la visione maniacale di Achab è la pelle del gigantesco cetaceo: “un tessuto interminabile di enigmatici scarabocchi – una pelle scritta, una scrittura cutanea che ininterrottamente solca i mari senza che nessuno sia in grado di leggerla” (p. 27). Con Bartleby è una scrittura che si cancella e diventa un ghirigoro; con Achab una scrittura cutanea che diventa un insieme di enigmatici scarabocchi. La pandemia che accade ha cambiato il tuo rapporto con la scrittura? Perché in entrambi gli esempi l’accosti al concetto di illeggibilità?
Scrittura è per me una parola cruciale. È colma e vuota, fitta e desertica, saldamente strutturata e al contempo sfatta, smagliata – il pezzetto di gomitolo con cui il gatto gioca sotto la poltrona. Ed è una parola magnificamente ambigua. Perché la scrittura è all’apparenza priva di materia essendo invece concretissima. Scrivendo, la scrittura non è un filo d’inchiostro o un succedersi di pixel scuri su uno sfondo bianco, non è priva di corpo e di dimensione, ma è a tutti gli effetti corpo, immaginare le frasi vuol dire immaginare forme, mi azzardo a dire persino forme tridimensionali, solidi che gravitano nello spazio, planano, crollano oppure si proiettano verso l’alto. Inoltre la scrittura è dappertutto, perché tutto quello che esiste può essere guardato come testo. In questo senso la pandemia ha reso più chiara l’esistenza di uno specifico testo – lo spazio personale e lo spazio sociale – che di colpo ha smesso di essere considerato ovvio facendosi riconoscere in tutta la sua traumaticità. Intendo dire che i nostri corpi nello spazio scrivono, scrivono sempre, nel movimento, nella gesticolazione, anche quando se ne stanno immobili, e durante la pandemia – durante la pandemia è un’altra espressione ambigua, perché nominata in questi termini la pandemia sembra essere passata, qualcosa da cui abbiamo preso congedo, ma sappiamo che così non è: la pandemia c’è ma una coscienza profonda e traumatica della pandemia sembra essere scomparsa; durante la pandemia, dicevo, i corpi nello spazio sociale hanno iniziato a scoprire l’esitazione, il ritrarsi, producendo vere e proprie coreografie silenziose che avevano per scopo il mantenere viva e percepibile la distanza tra i corpi stessi. Persino l’invisibile dei nostri respiri è diventato una specie di scrittura aerea, molecolare, presente e potenzialmente minacciosa.
Per quanto riguarda la seconda parte della tua domanda, per me la scrittura non è necessariamente lo strumento tramite cui si accede al discorso ed eventualmente al senso. Dell’ambiguità della scrittura fa parte anche il fatto di essere in parte opaca, una cosa che, come certe piante o come certi animali introversi, preferisce stare in penombra, o meglio ancora si nutre di penombra. Qualche volta, la sera, mentre sto leggendo un libro, mi succede di sentire la stanchezza che si impone, prevale, e confonde la vista. In quei momenti io fisso la scrittura, la vedo e non la vedo. I caratteri sono lì, formano le parole che formano le frasi, tutto è vicinissimo eppure si è allontanato fino a farsi incomprensibile. Forse anche in quel caso avrebbe senso parlare di un’intima lontananza: la scrittura sembra un’evidenza, una cosa data e certa, sotto controllo, ma ha anche a che fare con l’offuscamento e dunque con la visione (in un certo senso è come se l’evidenza fosse semplicemente un mezzo per accedere alla visione). Quello che mi chiedo è se l’illeggibilità della scrittura abbia a che fare con lo smarrimento del senso o non invece con il suo inaspettato rinvenimento: con la sua invenzione.
Le case grandi sono più difficili da riempire. L’appartamento in Tre orfani ha un perimetro che potrebbe moltiplicarsi all’infinito. È ricco di spazi che si definiscono solo quando i personaggi li abitano: la cucina, il soppalco, la mansarda, la camera da letto, il bagno, il terrazzino. Per il resto, è una “casa enorme inalterabilmente vuota” (p. 10) piena di “camere adespote” (p. 15). La casa ridimensiona il nostro tempo. Durante la quarantena, quello che mi colpì oltretutto era il silenzio che veniva dalle strade. Il silenzio esterno amplificava tutti i piccoli rumori interni casalinghi. Nel tuo racconto, la casa è scandita dai rumori dei personaggi; soprattutto da Achab con la sua protesi sul pavimento: “avevo ascoltato quei rintocchi a uno a uno, come se componessero un infaticabile discorso vegetale, un colpo di legno e un vuoto, (…) per metri minuti e ore” (p. 15). I personaggi non dialogano mai direttamente fra di loro a voce, ma attraverso i rumori della propria presenza, i gesti e gli sguardi. In effetti, è come se la casa fosse sott’acqua. Non c’è aria, è possibile che sia dettato da questo il loro mutismo? “(…) immersi in un abisso che appare aria ed è subacqueo”. (p. 25). Palermo è sott’acqua?
La casa è subacquea e allo stesso tempo se ne sta conficcata da qualche parte nello spazio siderale. Corrisponde a uno spazio reale, a una via e a un numero civico, ma è anche, in un certo senso soprattutto – o almeno questo è quello che desideravo –, uno spazio disperso nel tempo. In una casa come questa, inabissata o rarefatta, il suono non si trasmette. Tre orfani è un racconto completamente muto (sì, in teoria Achab parla, ma parla sempre tramite Melville, non tramite me). Ne viene fuori una pantomima, una forma espressiva che mi piace molto perché inclina fisiologicamente verso il comico. Nel senso che il succedersi di gesti di un personaggio, in particolare laddove questi gesti hanno un obiettivo e una spiegazione, evoca l’annaspamento. Achab annaspa in modo evidente, persino plateale; Bartleby annaspa attraverso gesti minuti e sicuri; la voce narrante annaspa nel suo continuo andirivieni da una parte all’altra della casa. Tutti e tre percorrono l’appartamento, un passo dopo l’altro lo scrivono. La loro pantomima è subacquea (amniotica, direi più esattamente), sonnambula, freneticamente lenta.
Devo aggiungere una cosa: ho scritto il racconto in un periodo in cui nel quotidiano ho assorbito un succedersi di gesti il cui senso era recondito e quasi sempre inaccessibile, annaspamenti solo raramente accompagnati da qualche parola. L’ho scritto in alcune settimane tra agosto e settembre, tra le sei e le otto del mattino, seduto al tavolo del terrazzino che compare anche all’interno del racconto. Un terrazzino che si affaccia su un piccolo cortile e su una serie di retroprospetti. Penso che in questo racconto siano finite tutte quelle albe e quei cortili, i retroprospetti e le gesticolazioni mute: un continuo naufragio riorganizzato in forma di frasi.
Il 12 marzo 2020 è una data che coincide anche con il tuo compleanno e quello del protagonista. La voce narrante, dopo aver festeggiato i suoi cinquant’anni con la torta grottesca al formaggio, zenzero e foglie si rende conto di essere diventato un ramponiere. Tu cosa sei diventato?
Non so cosa divento. Non so neppure se divento. La voce narrante del racconto ha il privilegio di sperimentare qualcosa che sta tra l’intuizione e il presentimento, vale a dire la sensazione di aver compreso, seppure labilmente e transitoriamente, qualcosa. Forse del resto il senso è qualcosa a cui si accede sempre in questo modo; labilmente, transitoriamente, senza poterlo toccare, tanto meno stringere, ancor meno possedere in una forma definitiva. Il senso è un bagliore, si manifesta impercettibile alle prime luci dell’alba, si mescola al dormiveglia: è una conoscenza sonnambolica.
Per me – che ho uno stretto legame con la voce narrante del racconto ma che non corrispondo pienamente al temperamento e allo sguardo sul mondo di quella voce narrante – questo presentimento è rarissimo, questa intuizione è così vulnerabile da conoscerne più che altro l’evanescenza (non il fuoco ma la cenere). Ugualmente l’immaginazione dei tre orfani all’alba sul terrazzino alle prese con la loro torta grottesca mi fa malinconicamente compagnia, così come mi fa compagnia lo sguardo di Osvaldo, quello sguardo «col buio davanti e dietro», per usare un’immagine molto bella di Salvo Licata: uno sguardo sovraumano, che sta al di là dell’umano, uno sguardo senza intenzione e senza storia, senza presente passato futuro (dunque uno sguardo che non diventa), uno sguardo che senza rendersene conto ha visto tutto e non sa niente: lo sguardo di chi nasce e di chi muore; uno sguardo che mi attrae e mi spaventa e mi commuove proprio perché è orfano di senso.
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