Il paesaggio. Dialogo con Giuseppe Barbera

Il paesaggio. Dialogo con Giuseppe Barbera

 

a cura di Ivana Margarese

 

Immagini di Francesco Lojacono

 

 

Giuseppe Barbera è professore ordinario di Colture Arboree all’Università di Palermo e si occupa di sistemi e paesaggi della tradizione agricola mediterranea. Oltre a numerosi articoli  scientifici, ha pubblicato vari saggi L’orto di Pomona, (L’Epos, 2000); Ficodindia (con P. Inglese, L’Epos, 2001); Tuttifrutti, Viaggio tra gli alberi mediterranei tra scienza e letteratura (Mondadori, 2007); Abbracciare gli alberi. Mille buone ragioni per piantarli e difenderli (Mondadori, 2009/ Il Saggiatore 2017) e sempre per Il Saggiatore (2021) Il giardino del Mediterraneo. Storie e paesaggi da Omero all’Antropocene.
E’ membro dell’Accademia dei Georgofili e della Accademia Italiana di Scienze Forestali. Per il FAI ha curato il recupero della Kolymbetra nella Valle dei Templi e il giardino Pantesco Donnafugata di Pantelleria.
Abbiamo dialogato con lui sul tema del paesaggio, inaugurando un percorso di incontri dedicati al tema.

“Io per me credo che un albero, un sasso profilati sul cielo, fossero dei, fin dall’inizio.” Così scrive Cesare Pavese in un celebre passo dei Dialoghi con Leucó parlandoci magistralmente del sacro. In tutte le antiche religioni sono presenti boschi sacri e alberi cosmici e questa connessione tra tutti gli esseri viventi anima alcuni movimenti di nuova o vecchia spiritualità. Potrebbe raccontarmi la genesi del suo Abbracciare gli alberi ? Cosa ha ispirato il titolo?

Era il 2009. Avevo da poco pubblicato negli Oscar Mondadori “Tuttifrutti” e si discuteva di un nuovo possibile libro. E mi venne in mente che dopo i frutti era il momento degli alberi e degli  infiniti vantaggi che regalano agli uomini.  Ero stato colpito da un articolo su una rivista che ricordava la lotta delle donne della comunità Chipko, in India, per salvare gli alberi che davano sicurezza ambientale ed economica. Una lotta che si svolgeva abbracciando gli alberi e così facendosi trovare a chi era venuto per tagliarli per alimentare le fornaci della reggia del Marajia. Insomma, l’abbraccio non aveva, nelle mie intenzioni, nessuna intenzione sacra, esoterica o così via.  Gli alberi si abbracciano per difenderli e, in qualche modo ringraziarli. Ero e rimango contrario alle idolatrie, anzi in particolare alle dendrolatrie.

Lei sottolinea più volte l’importanza del considerare il sistema agricolo come un ambito di relazioni, un ecosistema che tiene conto di complessità e diversità, piuttosto che come mera somma di parti su cui intervenire singolarmente. Come si intrecciano tra loro a suo parere la storia naturale e la visione e la responsabilità etica?

La cultura riduzionista, quella che riduce tutto a singole parti di cui occuparsi, a singoli problemi da risolvere mostra i suoi terribili limiti con i disastri ambientali, con problemi economici e sociali che crescono invece di diminuire. Serve una visione sistemica e un sapere sistemico. Lo sa bene che lavora in campagna o con la campagna. Sudore e amore. Scienza e sentimento, sono insieme indispensabili.

In Abbracciare gli alberi lei racconta in maniera assai efficace il suo incontro, mentre era ancora un giovane ricercatore, con colui che avrebbe poi scoperto essere don Michele Greco, noto come “il Papa” e capo riconosciuto della Cupola di “Cosa nostra”. Leggendo quanto descrive la mia memoria è tornata indietro a quegli anni a Palermo, ai contrasti della città: “Nella pace di un giardino il capo della mafia mi sorrideva e si preparava a uccidere”.

Delle vicende del Fondo Favarella e di Michele Greco, sanguinario capo mafia, ho scritto più volte e ogni volta mi sorprendo di come possa essere così distratto di fronte al male. Convinto che non sia lì, ma altrove. Avrei dovuto accorgermene e mi dispiace non averlo fatto. Adesso però la grande soddisfazione è che il fondo sia tornato nelle mani dei legittimi proprietari e il giardino di agrumi torni a produrre economia pulita, bellezza, pace.

“Nei tempi dei particolarismi, dell’egoismo, del sovranismo si nega l’utilità (naturale, colturale, culturale) dei margini: luoghi di scambio e non esclusione, di accoglienza e non di respingimento”. La riflessione sul Mediterraneo diventa occasione per riflettere sulla diversità, sul dialogo e sui confini, che piante e animali non conoscono e che gli uomini si affannano a mettere e a superare. Nel saggio lei ricorda anche come Primo Levi elogiasse «l’impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita». Ci vuole il diverso, il dissenso, per far crescere e vivere qualcosa.

L’importanza di difendere e accrescere la diversità biologica e culturale la insegna prima di ogni cosa l’ecologia. Dove c’è diversità c’è complessità e quindi stabilità di fronte alle sventure della natura e della storia. La grandezza del Mediterraneo sta proprio nell’avere sviluppato e conservato, certo tra tante contraddizioni, la diversità nata dal continui scambio tra tre continenti.

Vorrei soffermarmi sul concetto di paesaggio. In Il giardino del Mediterraneo lei scrive: “Ogni paesaggio è un palinsesto. Ogni linea, ogni volume, ogni ecosistema ne racconta la storia”. E ancora: “Tutti i paesaggi sono culturali: storia e natura si confondono”. Infine il geografo Eugenio Turri avrebbe pensato al paesaggio come «teatro nel quale individui e società recitano […] le loro storie, in cui compiono le loro “gesta”, piccole o grandi, quotidiane o di tempo lungo, cambiando nel tempo il palcoscenico, la regia, il fondale, a seconda della storia rappresentata». Mi pare interessante questa congiunzione di paesaggio e narrazione, dove peraltro il paesaggio è frutto non solo di una cultura, di un immaginario personale, ma è sempreanche  sociale, espressione di una collettività.

Il paesaggio, è stato detto, è lo specchio di una civiltà. E’ natura, più storia. E’ natura trasformata dalla cultura.  Ci sono diversi modi per studiare un paesaggio diversi saperi ma tutti, se presi singolarmente, falliscono. Il paesaggio infatti è sistemico come nient’altro. E per descriverlo certo servono numeri, algoritmi, cartografie, analisi ecc. Ecc. ma la “lingua” che meglio lo interpreta è fatta, attraverso una narrazione, di poesia, arte, immaginazione.

In lingua latina la corteccia era chiamata liber con una affascinante e suggestiva connessione tra libro e libertà. Lei è senza alcun dubbio un attento lettore. I suoi testi sono costellati di citazioni e riferimenti a scrittori, filosofi, poeti. Mi potrebbe raccontare di questa passione da lettore.

Ho scritto con grande gioia un piccolo libro “Breve storia degli alberi da lettura” impreziosito dall’amore verso i libri dell’editore Henri Beyle. La connessione etimologica certa non è però riferita alla libertà (seppure affascinante) ma al libro degli alberi, alla parte interna della corteccia dove si sviluppano i vasi che dalle foglie nutrono la pianta. Così come un libro, nutre la cultura del lettore. E leggendo libri ho scoperto ancora di più il rapporto tra alberi e libri al punto che detesto le parole che avrebbe detto San Bernardo “troverai nei boschi più di quanto troverai nei libri”. Non è vero! Nei boschi, certo trovi tantissimo, ma il sentiero che percorri è tracciato dai libri, dalla cultura. E per questo mi servo di citazioni di letterati. Perché dire con mie parole ciò che la poesia dice al meglio?. Ho anzi un sogno, scrivere un libro di sole citazioni, ma senza virgolette.

Jean Jacques Rousseau invitava a piantare un albero anche se non si riesce a immaginare chi godrà della sua ombra. Questo invito a guardare al di là di ciò che si vede per immaginare ciò che non si sa ancora mi pare prezioso in ogni ambito.

Sulla frase di Rousseau che dire. La filosofia è nata all’ombra degli alberi…I sogni sotto gli alberi scorrono felici…incontri e innamoramenti pure. Vi immaginate tutto ciò sotto il sole a picco dell’estate mediterranea?

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