Sotto il cielo della Serbia. Intervista a Milica Marinković

Intervista a Milica Marinković di Silvia Bistocchi

 

“A tutti coloro che nella primavera del millenovecentonovantanove cercavano il sonno sotto il cielo della Serbia”, con questa dedica sognante e malinconica apri il tuo libro In serbo Milica; quante invece credi siano state le persone, ma soprattutto i popoli, che appena fuori dal cielo della Serbia, hanno goduto di un sonno sereno e ristoratore? Quanti hanno potuto chiudere, ed hanno chiuso effettivamente gli occhi, in quella primavera di vent’anni fa, cullati dalla fanfara mediatica che sproloquiava sulla cosiddetta “guerra umanitaria”.

Bella domanda. Forse perché non riesco a trovare una risposta. Forse la risposta non c’è. Ad ogni modo, la mia dedica non ha nulla di “esclusivo”, diciamo così, nei confronti di coloro che si trovavano in Serbia in quel periodo. Semplicemente, volevo creare una cornice a forma di Serbia e collocarvi le anime, le voci, i sospiri e gli occhi aperti. Volevo dedicare il libro alle vite che ho raccontato, a colori che vi si sono riconosciuti oppure vi hanno visto qualcuno. Certo, molti non dormivano proprio perché erano lontani, forse oltreoceano, e temevano di perdere qualcuno sotto le bombe. Forse, quel tipo di paura è peggio, anche se le paure non conoscono gerarchie. Quello che spaventa me può far ridere un’altra persona e vice versa. A ognuno il proprio mostro. Però, forse il mostro più grande è quello che chiude un occhio davanti alle manipolazioni mediatiche. Della cecità mediatica non conviene nemmeno parlare.

 

 Sempre nel tuo libro In serbo ci narri di come una parte della popolazione preferì cercare riparo nel bosco piuttosto che nei rifugi sotterranei e nelle cantine, durante quei terribili bombardamenti del 1999. Forse nel bosco le persone scorgevano un solido riparo. Cosa rappresenta per te il bosco?

Il bosco mi ha sempre meravigliata. È il mio paese delle meraviglie. È un luogo molto fiabesco e archetipico, molte volte è stato presentato come luogo dei riti di iniziazione, perdizione, magia, libertà, natura, caos mentale. È davvero vasto sia come spazio che come idea. Mi ricordo che, quando scrivevo la mia tesi di dottorato sul mito del labirinto nei romanzi dell’autrice quebecchese Anne Hébert, la parte sul bosco non finiva mai! Temevo di dover cambiare argomento della tesi dopo tanta ricerca. Per quanto riguarda il libro In serbo, il bosco è un grande ossimoro di per sé. È un luogo aperto dove ci si può nascondere. È anche un personaggio che si oppone agli aerei. È anche la Madre Natura.

 

 “Allora, però, spezzava il cuore a tutti noi vedere l’immagine dell’immenso ponte che fino a poco tempo prima aveva collegato una delle più belle città serbe con una cittadina vicina. Dal Danubio sporgeva una sua parte, come l’osso di un corpo annegato. Un corpo ucciso e gettato nel fiume come in una delle peggiori violenze, come in uno stupro. Però, i ponti non erano soli: avevano noi. E noi li proteggevamo con i nostri corpi e con le nostre voci. I ponti erano luoghi di concerti dove si cantava e ballava mentre il cielo era coperto dagli aerei. Un popolo pazzo, direste, ma per noi era normalità. E quello ci ha salvati. Il canto e il ballo. Perché, nei momenti più difficili, la musica aiuta. In quelle occasioni, inconsciamente ci ricordiamo del ritmo della musica di ognuno di noi, del ritmo del battito dei cuori, soprattutto del cuore che ce l’ha insegnato il ritmo, all’interno dell’utero materno.” Ho trovato particolarmente suggestivo ed emozionante questo squarcio di vissuto che hai descritto, puoi regalarci una riflessione in merito?

Grazie. Infatti, anche io mi emoziono ogni volta che ripenso a questi episodi, così ricchi di simboli. Non avere più i ponti significava non avere più la libertà. Nonostante si vivesse sotto terra. Il ponte unisce, è la strada verso l’altro, verso il lavoro, verso la sopravvivenza. Belgrado e tante altre città sono piene di ponti. Immaginate Parigi e la sua Senna senza ponti. È difficile. Ma è difficile, forse, immaginare pure i parigini sui ponti sotto le bombe. Ho riso, l’altro giorno, perché ho visto su internet il kolo ai tempi del coronavirus. Praticamente, le persone, anziché tenersi per mano, ballavano tenendosi tutti insieme per una corda. Ecco, un altro esempio che spiega un po’ la logica (o illogica) del mio popolo. Tutto può mancare, ma la musica mai. È nel DNA. E nelle situazioni drammatiche unisce di più. Ha il potere di sdrammatizzare e di unire.

 

 “Scrivere, tradurre, creare, produrre, offrire, donare, tendere la mano, aiutare, amare, comunicare, dialogare, vedersi, ascoltarsi, baciarsi, abbracciarsi (oh, soprattutto abbracciarsi!), tutto è un ponte. Solo così l’umanità può andare avanti…” e prendendo ancora in prestito le tue parole, non posso fare a meno di pensare alle analogie con la situazione odierna, che però vede vittima, questa volta, tutta la popolazione mondiale colpita da una spaventosa pandemia. Credi siano ancora questi i segreti e i valori per potersi salvare e andare avanti, per ritrovare quella normalità che sembra ormai perduta per sempre?

Oh, per assurdo, tutto ciò che ho elencato è un pericolo, adesso. Non ci è consentito vederci, abbracciarci, baciarci ecc. Però possiamo amarci. Possiamo tendere la mano senza toccarci. A volte il valore e il segreto sono nell’intangibile. Adesso più che mai. Forse perché abbiamo esagerato, abbiamo violato la natura. Ma se queste mie idee che hai condiviso rimangono come “segreti” conosciuti e condivisi per andare avanti, penso possano essere d’aiuto.

 

Vi sono diverse storie dentro la storia principale del tuo libro, come fossero matrioske, dalla più grande alla più piccola, ma tutte allo stesso modo toccanti. In ultimo, vorrei chiederti qualcosa in più sulla figura quasi mistica della bisnonna “nana”, che raccontava queste storie con una purezza così fiera da renderle immortali, e con esse, anche la vita di chi le ascoltava. “Il mondo ha bisogno delle storie, sopravvive grazie alle storie”. Ti confesso che anche io, d’ora in poi, alzando gli occhi al cielo vedrò i volti di Senka, di Kristina e di Mirjana.

La nana è il bosco parlante. Tutto ciò che rappresenta il bosco, può raffigurare questo personaggio femminile, onnipresente nelle letterature slave popolari. Ecco, forse è la storia quella che può salvarci adesso, forse più che il ponte e, dunque, più che l’abbraccio. La storia e la parola hanno un potere magico. Lo sapeva bene Boccaccio, sì, ma Shahrazād lo sapeva, forse, meglio.

 

Grazie per queste belle domande che mi hanno aiutato a riconsiderare certe questioni sotto una nuova luce.

 

 

Biografia

Milica Marinković, nata a Smederevo (Serbia) nel 1987, laureatasi in Lingue e letterature romanze e in Linguistica francese presso l’Università di Belgrado, ha concluso un dottorato di ricerca in Francesistica all’Università di Bari “Aldo Moro” con una tesi sul labirinto nella letteratura francofona. Ha pubblicato diversi saggi e racconti su riviste e siti specializzati e fa parte della redazione di «incroci. semestrale di letteratura e altre scritture» (Adda). È (co)traduttrice di diversi volumi e coautrice di due antologie poetiche. Prima di In serbo, ha pubblicato il romanzo Piacere, Amelia (Les Flâneurs 2016). Scrive sulla lingua e sulla cultura serbe sul blog personale www.serboperitaliani.wordpress.com

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