La riunione di condominio

La riunione di condominio

 

di Giorgio B. Scalia

 


I
l professor Di Sofia prese parola per primo: «Sono stanco di trovare dell’orina sotto la porta».

«Questo è un palazzo per bene. Ma che dice, professore?», rispose l’amministratore infossando la testa nel capotto.

«Non c’è mattina che non trovi quello schifo puzzolente».

«È sicuro che sia pipì?», intervenne la signora Burzotta del terzo piano.

«Certo! È un mese che pulisco sperando che non ricapiti, ma ora esigo che il colpevole si faccia avanti».

«Pensa sia stato uno di noi?», gli domandò l’ingegner Alaimo posandogli una mano sulla spalla.

«È ovvio, se il portiere avesse visto entrare qualche sconosciuto sarebbe intervenuto, è qui per questo, anche se sta seduto tutto il giorno a oziare», disse sgusciando dalle dita dell’ingegnere.

«Non potrebbe essere qualche suo alunno? Il portone, non si sa come, è sempre aperto. Quella che sta avanzando è un’accusa pesante verso tutti noi», disse il signor Pappalardo del quinto piano.

«Dopo la mezzanotte non posso assicurare niente. Magari il signor Pappalardo non ha tutti i torti», dissi per dare sostegno alla sua ipotesi.

«Impossibile, signor Pappalardo, tra i miei corsisti ci saranno anche degli ignoranti, ma nessuno di loro sarebbe così stupido da fare una cosa del genere per una bocciatura, e poi nessuno di loro sa dove abito».

«I ragazzi sono delle teste calde. Forse l’hanno seguita fino a casa e, a notte fonda, le fanno lo scherzetto», intervenne, con l’aria di chi la sa lunga, il signor Marulli, il più anziano di tutti, che abita al secondo piano da quando è stato costruito il palazzo .

«Non lo chiamerei scherzetto, questa è un’intimidazione bella e buona. Non la prenderei sottogamba», disse serio il dottor Tutone, il vicino di pianerottolo del professore. Dopo la morte della signorina Mazzola, l’appartamento era rimasto vuoto per un sacco di tempo, ma da un mese il dottor Tutone si era trasferito con la sua Lulù, un cirneco magro magro e con le orecchie a parabola.

«Chi mette subito le mani avanti manifesta colpevolezza, lo sa, dottor Tutone? Aspettavo che parlasse proprio lei. È la regola: i cani non sono ammessi in questo stabile».

«Ma l’abbiamo sempre considerata più come un consiglio», disse l’amministratore alzando la penna.

«Cosa c’entra Lulù? È buonissima», disse il dottor Tutone.

«Da quado è arrivato con quel sorcetto, stranamente mi ritrovo la porta inzuppata di orina. Ma poi dottore di cosa? Ché fa il commerciante», disse il professore senza nemmeno guardarlo, poi incrociò le braccia.

«Se permette, sono laureato in matematica con 110 e lode».

«Mi fa ridere, con la sua laurea ci conta solo gli incassi. Dottore, lei? Lei è un imbroglione, mette quella placca di bronzo sulla porta e fa credere a tutti di essere chi sa chi, quando invece vende solo robaccia».

«Calmiamoci, professore, non le pare di stare esagerando?», intervenne bonario l’amministratore. Un brusio di sottofondo si sollevò tra i condomini che guardavano ora il professore, ora il dottore. La signora del quarto piano sosteneva di averli sentiti discutere animatamente sul pianerottolo. Anche i coniugi del secondo piano avevano da raccontare: il signor Lo Piccolo li aveva visti davanti all’ascensore, il professore era entrato per primo lasciando al piano terra il dottore con il cagnolino al guinzaglio. Potevo confermare ogni voce. Avevo notato prima di tutti gli altri che quei due non andavano d’accordo, come quella volta che il professore vide Tutone buttare le batterie nel bidone dell’indifferenziata, lo redarguì come fosse un suo alunno. Gli descrisse i processi chimici che regolano una batteria e il perché non andrebbero buttate nella comune spazzatura. Il dottore non aprì bocca, riprese le batterie e se le rimise in tasca. Erano fatti per starsi antipatici, ma il professore lo salutava sempre nonostante i rancori, come fra veri signori.

A me, invece, il professore non mi ha mai salutato, anche se io lo faccio sempre. Non mi fa manco un cenno con la testa, né mi sventola la mano, niente, fa finta che io non esista. Sono sempre gentile e discreto, non disturbo e tengo d’occhio la portineria al riparo da testimoni di Geova e pubblicità molesta. Certo, in questo quartiere bene, non c’è mai stato un furto o una violenza, ma in guardiola tengo sempre il mio manganello. Tutti sanno che ce l’ho. Anni fa, la signora Burzotta raccontò a tutto il palazzo che con una manganellata la salvai da un topolino che le si era intrufolato in casa. Il manganello era di mio padre, faceva il poliziotto e gli volevo un gran bene. Eravamo rimasti da soli, la mamma era morta durante una rapina. Lui non la prese bene e, certe volte, quando lo facevo arrabbiare, mi picchiava con quel manganello. Anche se ero piccolo, capivo e gli perdonavo tutto. Non era cattivo, era solo arrabbiato. Mi ha insegnato l’onore e il rispetto. Quando lui entrava in una stanza, lo salutavano tutti, sempre. Ho sempre onorato mio padre, e badai a lui fino a quando non chiuse gli occhi. Voleva seguissi le sue orme, ma come morì, mi sono messo a fare il portiere. Ho scelto quest’impiego solo per fargli vedere, da lassù, che a prescindere da qualsiasi cosa avessi scelto di fare, tutti mi avrebbero portato rispetto. Infatti, ogni condomino mi saluta, perché io lavoro bene e sono affidabile, cambio le lampadine della portineria e a natale faccio l’albero, riparo i tubi, insomma, mi occupo ogni sorta di lavoretto che possa far star bene tutti, sono puntuale e, soprattutto, sono educato. Lunico che non mi saluta mai è il professor Di Sofia, pensa che sia un fallito con un lavoro mediocre. Ah, ma se sapesse di cosa sono capace.

«Secondo lei, farei pisciare il mio cane sulla sua porta? Lei è pazzo!», urlò il dottor Tutone e la sua voce rimbombò per tutte le scale mentre agitava il dito sulla faccia del professore.

«Non era mai capitato prima del suo arrivo, quindi è di sicuro lei. L’avverto, avverto tutti, se adesso non si prendono dei provvedimenti vi farò scrivere dal mio avvocato. Smetterò anche di pagare i lavori per la facciata, lo stipendio del portiere e il condominio, mi metterò a stendere la biancheria nel balcone che dà sulla via maestra, tanto qui le regole sono solo consigli. Giusto, signor amministratore?».

«Provvedimenti? Lei non ha alcuna prova contro di me», disse il dottore allentandosi la cravatta.

«Allora vada via, porti il cane da un’altra parte e vedremo se troverò ancora la pipì sotto la porta».

«Secondo me non trova proprio nulla, si è inventato tutto solo per cacciarmi di casa, perché per qualche assurdo motivo non mi sopporta».

Ma il dottor Tutone si sbagliava, la pipì c’era eccome, dal primo giorno che si era trasferito. Spazzo le scale ogni mattina, e la puzza si sentiva benissimo, lo zerbino ne rimaneva impregnato. Lo dissi sottovoce ai signori Rutelli, ma in modo da farmi sentire da tutti, soprattutto dal professor di Di Sofia. Magari per la prima volta mi avrebbe rivolto la parola, ma purtroppo non mi diede sazio e riprese il suo discorso.

«Allora, chi vota per mandare via il signor Tutone?». Calò il silenzio e tutti i condomini si guardarono con facce allibite e sospettose.

«Professore, sono sicuro che non accadrà più. Chiunque sia il colpevole dovrebbe vergognarsi e chiedere scusa al professor Di Sofia, come lui chiederà scusa a sua volta per le accuse infondate che ha rivolto al dottor Tutone».

Ma il colpevole non si fece avanti e il professor Di Sofia non porse le sue scuse. La riunione si sciolse e tutti se ne andarono borbottando commenti e lanciandosi sguardi appuntiti. E, come a molte delle riunioni a cui avevo assistito, tutto rimase uguale a prima.

Tre giorni dopo era Natale e il dottor Tutone mi lasciò le chiavi del appartamento. Dovevo dar da mangiare alla cagnolina e portarla a spasso. «Non è che potresti chiudere la finestra quando vai da Lulù? Guarda, è aperta», e me l’indicò. «Sta sempre così, ma stasera ho letto che ci sarà il gelo, non vorrei che morisse di freddo».

Lo sapevo benissimo che quella finestra scorrevole era sempre aperta, a Lulù piaceva stare in balcone e lui le lasciava sempre uno spiraglio. Quella sera non avrei chiuso un bel niente, doveva rimanere come l’aveva lasciata. «Un piccolo ringraziamento per il disturbo», mi disse mettendomi in mano dei soldi. Lo ringraziai infinitamente, e li rifiutai. Lui non poteva immaginarlo, ma andandosene mi aveva già fatto il più bel regalo di Natale che potessi desiderare. Il dottore continuava a insistere e, con cortese modestia, alla fine li accettai.

«Non si preoccupi, Lulù starà benissimo. Arrivederci e buon Natale!». Mi veniva da ridere per l’eccitazione, ma rimasi con un morbido sorriso di commiato e sventolai la mano mentre il suo taxi andava via.

Quella sera gli avrei ucciso il cane. Era l’unica parte del piano che mi tormentava, e fino a poche ore prima sentivo l’ansia che mi prendeva a calci sui reni. Dovevo tutto a quella bestiola e mi promisi di dargli una morte rapida, una potente manganellata sulla testa e Lulù sarebbe morta sul colpo. Ma per sua fortuna, proprio mentre stavo per andare ad ammazzarla, quel matto del professore scavalcava la ringhiera del suo balcone per raggiungere quello del dottor Tutone. Fu lì, dopo una vita a disdegnare il mio sguardo, che il professore mi fissò negli occhi. Ero appena entrato in salotto e lui era appena arrivato sulla soglia della finestra, in mezzo a noi c’era Lulù che giocava con il suo osso di gomma.

Avevo studiato per bene il professore. È da quando lavoro in questo palazzo che voglio dargli una lezione, ma non erano mai capitate le giuste circostanze. Dopo anni di pedinamenti, sapevo che all’università i colleghi lo ignoravano, non avevano alcuna stima di lui, e che per loro era solo un vecchio rincoglionito. Il professore ne era a conoscenza e se ne stava sempre in disparte, ma anche se si fosse messo a ballare per i corridoi la gente sarebbe rimasta indifferente alla sua persona. Ogni tanto seguivo le sue lezioni, era incapace di mantenere l’ordine. Ciascuno dei suoi corsisti faceva di tutto meno che ascoltarlo. Il professore sbraitava nel microfono con gli occhi lucidi e una vocina di roditore e i ragazzi scoppiavano a ridere senza ritegno. Ero certo che se avesse perso anche il rispetto che nutrono per lui nel palazzo, sarebbe scoppiato. Ma che arrivasse fino a questo punto non potevo proprio prevederlo.

«Cosimo, che ci fai qua?», mi disse tentando di celare l’evidente preoccupazione che gli sudava dalla fronte. Strinsi il manganello fra le mani e scoppiai a ridere, ripensando a tutte le notti che ero salito fino al sesto piano per svuotare una bottiglia del mio piscio sotto la porta del professore. Ne avevo due, una sempre piena di piscio stantio e un’altra che andavo riempiendo, così da non essere mai senza. Avevo cominciato a mangiare solo asparagi, pesce, cipolle e aglio, volevo che la puzza fosse rivoltante. Il professore, come prevedevo, accusò il cane, e intanto io mi sfregavo le mani, mentre aspettavo con impazienza il giorno in cui sarebbe scoppiato, cosa che finalmente è accaduta tre giorni fa, alla riunione di condominio. Per completare l’opera, alla fine, avrei ucciso Lulù con un colpo di manganello e poi avrei fatto sgocciolare il suo sangue sul bacone del dottore. Avrei macchiato anche l’inferriata del professore e gettato i guanti e il manganello nel suo balcone.  Prima di salire, avevo manomesso la serratura della mia guardiola. Avevo pensato a tutto. I condomini avrebbero dato per scontato che il professore avesse forzato la porta e mi avesse rubato il manganello per andare ad ammazzare il cane del vicino, provando per giunta a incastrare me, l’amabile portiere. «Vattene, idiota!», mi urlò, mentre, piano, camminavo verso di lui. «Che vuoi fare con quel manganello?», strillò impaurito afferrando una siringa dalla tasca. Non gli risposi, ma con uno scatto gli piombai addosso e gli fracassai la testa con un colpo. Sentì un crack, il suo corpo si fece molle e pesante, gli diedi una piccola spinta e lasciai fare alla forza di gravità. L’attimo dopo sentì il suo cadavere spappolarsi sul marciapiede. Le cose erano andate meglio di come le avevo architettate, il cane si era salvato e io ero al sicuro da qualsiasi sospetto.

I condomini e io rivelammo alle forze dell’ordine i battibecchi tra il professore e il dottore e raccontammo pure quello che era successo alla riunione di tre giorni prima. I poliziotti, grazie alle nostre testimonianze e alla siringa piena di veleno per topi ritrovata nel balcone del dottore, conclusero che il professore, in un impeto di follia, avesse provato a passare nel balcone del vicino per uccidergli il cane ma, per sua sfortuna, aveva perso l’equilibrio ed era caduto di sotto.

Ora sì che nel palazzo c’è solo gente rispettosa.

«Buonasera, dottor Tutone. Come sta?». Lui abbassa lo sguardo e, facendo finta di non avermi sentito, fila via senza salutarmi. Forse è ancora turbato per l’incidente, oppure ce l’ha con me perché mi sono dimenticato la finestra aperta e ho messo in pericolo la vita di Lulù? Non sento scuse, il saluto non si leva a nessuno e, mentre lui attende che le porte dell’ascensore si aprano, penso: «Guarda papà. Eccone un altro a cui devo dare una lezione».

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