24 Lug Giulia Niccolai: Le due sponde
Giulia Niccolai: Le due sponde
di Ivana Margarese
«Lenta, scende la pace / goccia a goccia…»
W. B. Yeats
Ciò che colpisce soprattutto nella figura di Giulia Niccolai è la memoria viva che coloro che l’hanno conosciuta conservano di lei e che arriva nettamente attraverso le loro parole, tanto che persino io, che non l’ho mai incontrata, ho l’impressione di averne beneficiato. Sentimento che peraltro è in perfetto accordo con uno dei temi centrali del suo pensare: la gratitudine o per meglio dire lo stupore del vivere, che altro non è se non essere grati. In senso più vasto, quando si smette di dare una cosa per scontata, si inizia a provare gratitudine, e la gratitudine è l’opposto dell’insoddisfazione (della quale siamo pressoché tutti vittime) e, in altre parole, l’essenza della pace interiore.
Poetessa, scrittrice, monaca buddhista, si è impegnata in una ricerca condotta su se stessa, durante la quale ha registrato, in vari testi, trasformazioni plurime di emozioni, pensieri e percezioni.
Non è un caso che uno dei suoi testi porti il titolo di Esoterico biliardo (Archinto 2001), dove “esoterico” rimanda al segreto, al celato, al mosso da una propria logica particolare, in un certo senso simile a quella necessaria per risolvere i rebus. «Bisogna scoprire il demone in ogni cosa» ha scritto un artista da lei molto amato, Giorgio de Chirico, citando Eraclito. Il demone è l’enigma, ovvero ciò che ci sfugge, che non riusciamo a comprendere e che continua a riproporci l’inevitabile e umana condizione della dualità verso ogni fenomeno: io e l’altro, io e tu. L’enigma è anche la spinta del desiderio che ci mette in cammino verso un orizzonte. Di questo percorso ha dato testimonianza – con tono intimo, facendo del lettore qualcuno a cui ci si confida con sincerità – nella scrittura, nonostante abbia intrattenuto con essa un rapporto ambiguo, quasi potesse rappresentare un ultimo atto di vanità da cui occorreva liberarsi.
Giulia Niccolai pubblica Le due sponde Spazio/Tempo – Oriente/Occidente con l’editore Archinto nel 2006. Un testo profondamente esplicativo del suo stile, che si presenta nella forma alla maniera poco conchiusa di una raccolta di appunti, la traccia di un percorso graduale di apertura e conoscenza. All’interno dei capitoli inoltre gli asterischi, tra un periodo e l’altro delle pagine, invitano a una sosta e a una lettura lenta e paziente, fitta di domande.
Il paesaggio delineato dalle sue riflessioni è più chiaramente intellegibile man mano che torniamo a rileggere, sostiamo sui pensieri, ci diamo il tempo di interrogarli e immaginiamo contatti possibili, quasi fossimo interpreti di un arte pontificale, capace di stabilire un collegamento tra due sponde. Immaginare un ponte è esigenza nata anche da elementi di natura autobiografica: lei stessa confessa di cercare dai tempi dell’infanzia di far combaciare tra loro la metà italiana e quella americana, per non sentirsi esule, e in parte estranea, in entrambi i paesi. A proposito del contatto tra mondi apparentemente differenti nel libro scrive:
Verso la fine degli anni Sessanta venni a sapere, per caso, da un perito forestale canadese, che sulla superficie della baia di Vancouver era possibile notare, di tanto in tanto, delle sfere di vetro che i pescatori giapponesi usano come galleggianti, e che le correnti del Pacifico portano fin lì, dopo che si sono accidentalmente staccate dalle reti.
*
La notizia mi incantò, tanto è vero che non l’ho mai dimenticata. Il fatto che la natura avesse creato questo fortuito e magico contatto tra i due opposti estremi di Oriente e Occidente, in quella zona del globo dove Est e Ovest sono separati solo dalla fluida distesa d’acqua dell’oceano, mi suscitò meraviglia e già allora, più di quindici anni prima che iniziassi il mio cammino spirituale, mi trasmise un inspiegabile senso di compiutezza.
In questo volume Niccolai si affida alle immagini e in particolare alla forza evocativa, insieme materica e spirituale, della pittura e della luce e cerca di individuare soprattutto attraverso le opere di alcuni artisti moderni – Hopper e Hockney, Hokusai, de Chirico, Magritte, Dine, Duchamp – la qualità metafisica e rivelatrice che, come scrive de Chirico, «sopprime il prima e il dopo, cambia lo spazio in luogo d’incontro di ciascuno con tutti, e di ogni momento con tutti i tempi”.
La pittura – scrive Niccolai – più di ogni altra arte, riesce a farci intuire l’assenza di tempo. E racconta, con la schiettezza che le appartiene, di alcune amiche della sua stessa età, con le quali parla di ciò che sta scrivendo su certi quadri di alcuni pittori, e che le confidano come per loro, invecchiando, la pittura abbia quasi assunto un calore e un’aura da «amica». Per quanto possa essere banale affermarlo, Niccolai è convinta che questo avvenga perché i quadri non «invecchiano», restano apparentemente uguali così che noi, ogni volta che li rivediamo sentiamo di capirli meglio. L’arte diventa, nel tempo, uno specchio sempre disponibile, in grado di mostrarci l’evolversi delle nostre percezioni:
Il desiderio di scrivere questi testi è maturato con l’età, dopo i sessant’anni, quando, guardandomi indietro nel tempo, mi fu possibile percepire con chiarezza quali fossero gli artisti che mi avevano dato di più, quelli che sentivo quali veri e propri compagni di strada, quelli, cioè, che mi avevano aiutato a crescere, a comprendere me stessa e il mondo, nonché a viverci, per quanto possibile, con maggiore consapevolezza.
Sapevo di apprezzare in modo particolare proprio quegli artisti dei quali avevo avuto l’impressione di essere riuscita a individuare e a decifrare le intenzioni e le motivazioni a monte del loro lavoro. Così, per coerenza, per esprimere loro la mia gratitudine, desidero ricostruire e ripercorrere proprio quelle mie tappe emotive e mentali di lento avvicinamento alla loro opera, nonché certe epifanie che me li hanno fulmineamente rivelati.
La pittura non può essere disgiunta dal piacere della riflessione e del pensiero. Come scrive Hannah Arendt “le opere d’arte sono: cose di pensiero” e pertanto riescono a coinvolgere la vista, la coscienza mentale, e persino il corpo e tutti i sensi. Si può entrare senza dubbio in confidenza con un quadro anche attraverso il tatto o l’ascolto.
A proposito della enigmatica pittura di de Chirico, l’autrice scrive:
La pittrice canadese Janet Cardiff confessa di aiutarsi a capire de Chirico con il senso dell’udito e, intervistata, parla di quella bambina che corre col cerchio in Mistero e malinconia di una strada del 1914.
Se lo facciamo anche noi, nel silenzio della strada deserta raffigurata, il nostro orecchio mentale si crea la colonna sonora dei piccoli piedi in corsa sull’asfalto, e il ticchettio irregolare del bastoncino di legno, in mano alla bambina, che dà un colpetto al cerchio ogni volta che lo raggiunge.
Questo semplice accorgimento ha il potere di farci identificare con la bambina e di conseguenza di vedere il quadro, nella sua inquietante totalità, come la metafora, la calzante rivelazione della vita che allora ci aspettava, della quale non potevamo sapere nulla, e verso la quale correvamo con incosciente e fiducioso trasporto.
Il riconoscimento e il contatto intimo e confidenziale che avviene con alcuni artisti è testimoniato dal primo incontro con le tele di Magritte che Giulia Niccolai racconta con queste parole:
Nei molti anni in cui ho giocato con l’idea di scrivere qualcosa su Magritte, ho sempre pensato che avrei iniziato il testo raccontando come – visitando per la prima volta il museo di una città fino ad allora a me estranea – vedendo un quadro di lui (senza sapere che ce l’avrei trovato), la sorpresa mi provocasse una felicità talmente eccessiva e infondata, da spiazzarmi. Era come incontrare, per caso, non una tela di Magritte, bensì un vecchio amico, proveniente come me da tutt’altra parte del mondo.
Anche tu qui? mi chiedevo raggiante.
Coincidenze e epifanie, in accordo con il cammino buddhista, hanno man mano avuto un ruolo importante nella vita di Giulia Niccolai, accostandola al mistero del quotidiano e ai diversi modi di guardare una stessa realtà. Il reale ci interpella come un enigma, con un senso di vertigine, un misto di paura e meraviglia. È noto che Giorgio Manganelli, con cui l’autrice per anni mantiene una stretta corrispondenza alimentata da sentimenti di ammirazione e amicizia, abbia risposto alla questione “ che cosa è un classico” con questa affermazione:
Ed ora umiliato, sconfitto, turbato, capisco: alle spalle del classico come sfida e come complice, sta un’altra, irreparabile definizione del classico: l’enigma.
Nel ’75 Manganelli si trovava in India, ad Aurangabad, e in albergo, una mattina molto presto, era in attesa di un’auto che l’avrebbe portato a visitare le grotte di Ajanta ed Ellora. Aveva con sé una copia dell’Orlando furioso che aprì a caso, per far passare il tempo. L’occhio gli cadde sulla quarantanovesima strofa dell’XI Canto, in cui viene descritto un orso ammaestrato che non teme l’abbaiare dei piccoli cani che lo circondano. All’annuncio dell’arrivo dell’auto, Manganelli scese in strada dove vide, di fronte all’albergo, un orso ammaestrato, col suo domatore, circondato da piccoli cani. «Una ottava dell’Ariosto si era quasi istantaneamente materializzata», annota con stupore. Le coincidenze permettono di tessere un filo tra elementi apparentemente distanti, un filosotterraneo e invisibile che unisce tra loro nell’interdipendenza, tutti i fenomeni. Scrive Giulia Niccolai su Manganelli in Esoterico biliardo:
Ecco, Giorgio era per me Hercule Poirot! Quale lo descrive Agatha Christie e quale lo impersona Peter Ustinov nei film più riusciti. In Delitto sotto il sole, ad esempio, dove dice una frase del tipo: «Nessuno ce la fa con Poirot, nemmeno in una lingua morta!».
Giorgio detective, Giorgio investigatore? Perfetto. Per la sua etica, il suo costante bisogno di capire e la sua trasgressività nel seguire la pista. Giorgio Poirot, finzione nella finzione, sempre centrato nei suoi pensieri e nella sua ricerca.
Questa pista del rebus viene mantenuta anche nelle analisi pittoriche a cui la scrittrice si dedica ne Le due sponde:
Un grande Maestro cela dietro i simboli e le immagini visibili dei suoi quadri una sorta di rebus o di formula alchemica, che rappresenta la summa di tutto il suo giusto sapere. A chi, studiando il quadro, sarà dato di identificare e risolvere tale rebus, ripercorrendone tutti i segni a ritroso, sarà anche dato di ritrovarsi in una sorta di «corridoio aereo» (uso questo termine per mancanza di uno migliore) fuori dal tempo, che lo porterà a una adesione, a una comunione totale con la mente di quel Maestro del passato.
*
È da queste meravigliose unioni di spiriti eletti che i capolavori ricevono «vita» e la loro ragione d’essere.
La poetessa riconosce come la pittura di Hockney l’abbia aiutata a divenire consapevole della bellezza estetica e del senso di pace che può dare la luce riflessa sul fondo azzurro di una piscina, quella di Magritte invece le abbia concesso di percepire “la carezza della luce sui muri e gli oggetti di una stanza” e che in un paesaggio, al tramonto, gli alberi sono i primi a diventare neri. Hopper ha mostrato la diversità della luce dell’Atlantico da quella del Mediterraneo e le prospettive evocatrici di de Chirico, con il suo alternarsi di luce e ombra, a volte sono capaci di risvegliare un assopito senso di trascendenza. La pittura diviene indagine comune, aspirazione alla salvezza.
Tra le opere su cui si sofferma c’è anche La Tempesta di Giorgione con il suo riferimento al criptico simbolismo della dama al centro del quadro che allatta un piccolo con solo una mantellina sulle spalle. Tanti si sono interrogati su questa figura e Niccolai si chiede se la “donna rilucente come un sole” simboleggi l’astro – il calore e la vita che da lui ci provengono – o la pittura, che per Giorgione è fonte di conoscenza, o forse entrambi. E conclude affermando che non possiamo non interpretare quella dama-sorgente-di-luce come una possibile via di redenzione, un’aspirazione alla salvezza. Questa costante tensione tra dualità appartiene alla condizione umana. Niccolai, seguendo questo fil rouge offre una toccante, straordinaria, analisi dell’opera di Hopper e delle sue figure umane, perse e ignare, “spesso raffigurate in momenti in cui sembrano interrogarsi senza sapersi rispondere, prive come appaiono di quell’introspezione necessaria per capire le cause della loro vaga e ipnotica tristezza.
Ecco che noi lettori, attraverso le pagine del libro, partecipiamo di brevi, umanissime e poetiche, rivelazioni che sarebbero potute accadere anche a ciascuno di noi, in un altro tempo e in un altro luogo. Veniamo accolti e semplicemente ne siamo grati:
Mi trovavo a Milano, un pomeriggio d’inverno, sul tram 29 fermo al capolinea di piazza Aquileia. Seduta sul lato destro della carrozza, guardavo verso sinistra. Non c’erano passeggeri in piedi, il tram era quasi vuoto. Altre quattro o cinque donne, di età diverse, sui loro sedili, incorniciate dai riquadri metallici dei finestrini, guardavano fuori, verso la piazza e le mura del carcere di San Vittore. Era un momento di immobilità: attesa e sospensione prima che la vettura ripartisse.
Quelle donne le percepii sole e forse un po’ meste, prigioniere delle loro preoccupazioni e dei loro pensieri, come lo siamo noi tutti. E provai, nei loro confronti, uno spontaneo slancio di simpatia. Capii che per essere riuscita ad avere con tale felice pienezza quel senso di identificazione nei loro confronti, era importante che il tram fosse stato fermo e non affollato, che sullo sfondo ci fosse stato San Vittore e forse anche che, di loro, io vedessi solo la nuca e i capelli, e non il volto.
Per l’analogia dell’emozione appena provata, pensai a Hopper, con riconoscenza. Ma non so se sia grazie a Hopper che ho potuto vivere un momento di così profonda intesa con quelle sconosciute, o se non siano invece state loro, incorniciate nei riquadri dei finestrini, a farmi comprendere Hopper meglio di quanto non l’avessi saputo fare prima d’allora.
Breve bibliografia
Giorgio Manganelli, Laboriose inezie , Garzanti, 1986.
Giulia Niccolai, Esoterico Biliardo, Archinto 2001.
Giulia Niccolai, Le due sponde Spazio/Tempo – Oriente/Occidente, Archinto 2006.
Bruno Mattu
Posted at 20:14h, 25 LuglioBellissimo articolo
Ivana
Posted at 02:50h, 26 LuglioGrazie mille.