17 Set Goliarda Sapienza: il paesaggio in “Lettera aperta”
Goliarda Sapienza: il paesaggio in Lettera aperta
di Giovanna Di Marco
Lettera aperta – pubblicato per la prima volta da Garzanti nel 1967 – è il coraggioso esordio di Goliarda Sapienza come scrittrice e l’inizio della sua “autobiografia permanente”, che ritroveremo in altre opere come Il filo di mezzogiorno o Io, Jean Gabin. È coraggioso perché Sapienza è un’attrice che rinuncia a questa professione dopo la morte della madre e una conseguente e grave depressione. La scrittura diventa allora per lei necessaria come viatico e salvezza. In quest’opera prima verranno raccontati gli episodi della propria infanzia e adolescenza a Catania, i rapporti con i genitori e i fratelli, la formazione culturale dell’autrice e il suo disagio esistenziale rispetto alle istanze educative impartitele.
Tutti o quasi gli eventi narrati si svolgono nella dimensione interna della casa, dello studio dell’avvocato (il padre, Giuseppe Sapienza), spesso del cortile, a volte, più di rado, per le strade della Catania. Difficilmente le sequenze narrative sono ambientate in spazi aperti. Soltanto in un’occasione ritroviamo la descrizione di un paesaggio. Si tratta di un paesaggio etneo, accompagnato da una divagazione, da un perturbamento, da eventi che hanno del prodigioso. Sapienza, scrittrice della realtà – anche nel sezionare meccanismi psichici e interiori – accoglie questa dimensione del mitico e del misterioso suscitato dalla natura attraverso un altro personaggio femminile nel quale si sdoppia: si tratta di Nica.
Chi è Nica? È la figlia del padre nata da un’altra donna, che però lui ha riconosciuto. Abita in una casa che si affaccia sul cortile, dirimpetto a quella della famiglia Sapienza. Non frequenta teatri, non cresce educata alla cultura, alla politica e alla letteratura come Goliarda e gli altri fratelli. Le due ragazzine iniziano tra loro una sorta di gioco e sogno erotico che, scoperto, viene interrotto da due schiaffi inferti a Goliarda da sua madre, Maria Giudice. Da lì il divieto di rivedere Nica.
Il capitolo che ha come sfondo il paesaggio etneo viene raccontato attraverso una analessi. La sospensione della narrazione e il ricordo dell’avvenimento passato vengono introdotti attraverso un incipit descrittivo e naturalistico: “Il mare lucente rifletteva la mezza luna sottile come una lama”. Nica, che guida la barca dove si trovano altre ragazzine (Goliarda, Santa e Agata), come una sorta di profetessa, elenca una serie di immagini della natura che si trasfigurano. La prima è la testa rossa di San Giovanni che affoga nell’acqua. Si tratta del sole che tramonta finendo dentro il mare e che prende la forma della testa del Battista. Si vedono i suoi capelli: “Era stata la luna a tirarglieli ed è un evento che accade ogni duecento anni”. Il secondo elemento naturale è il monte, che ispira a Nica una sorta di vaticinio: “Era il monte che le suggeriva le parole”. Nica parla poi di altri prodigi che verranno conosciuti dalle altre solo se la seguiranno. Il nero ella lava attorno suggerisce posti misteriosi seppur prossimi, dove Nica inventa le sue storie. E sono storie legate al vulcano, poste con il piglio e il lessico delle fiabe popolari. Il vulcano terribile e affascinante è del resto protagonista del mito, del folklore, di una civiltà antica che non sapeva dare risposte scientifiche agli eventi di natura. E allora immaginava attraverso cunti che mescolavano mostri pagani a santi cristiani.
L’immagine successiva è la luna: “Il mare luceva trasparente e la luna gonfia ingravidata […] Non si deve guardare troppo la luna, non ci si può addormentare sulla spiaggia, si rischia di essere presi dall’incantesimo e di diventare smemorati”. E, dopo la luna, è il momento del topo gigante più alto di un uomo che, quando c’è la luna piena, cerca i cadaveri con un lanternino per mangiare il loro cuore. Il racconto è talmente allucinato da generare in Goliarda la sensazione che tutte quelle immagini prendano davvero corpo.
L’evento finale che conclude il capitolo è la prova di Santa Lucia, a cui le ragazzine vengono sottoposte da Nica, che, come fosse un rito, inizia con queste parole: “La sabbia è lo specchio del sole. Il mare, il sangue del sole, e la luna la moglie del sole e del monte; è il monte che ingravida la luna”. Nica mostra alle altre un’immagine di Santa Lucia con le orbite svuotate e gli occhi sul piattino. Goliarda si sottopone alla prova che non viene nei fatti descritta. Ma non è questo che interessa all’autrice. Vuole dirci invece che, suggestionata dal potere affabulatorio di Nica, prima vede il volto di Santa Lucia nel cielo, poi perde la vista, ed si convince di avere perso le orbite che cerca sulla sabbia. “Nica sentì che piangevo, mi aiutò e me le rimise”. È chiaro che si tratti di un gioco tra bambine, ma Sapienza riesce a trasferire la veridicità di quelle storie inventate, narrandole come eventi reali, con le stesse emozioni vissute in quei momenti. Nica riesce e mettere in scena addirittura le storie che racconta: “Quante storie avrei potuto ascoltare da lei” e poi ancora “Dove le imparava Nica? Io le mie le imparavo al cinema, al teatro dei pupi, all’opera […] Nessuno a casa sua le raccontava”.
Era la montagna che gliele suggeriva, come viene sottolineato all’inizio del capitolo. Lo sdoppiamento in Nica pone il suo personaggio, l’Io narrante, di fronte allo strappo che l’ha condotta alla scrittura: un’infanzia diversa da quella degli altri, vissuta in un contesto fortemente ideologizzato, intriso di cultura ma troppo distante da un contatto reale con la natura. Nica invece incarna lo spirito popolare che riesce ad ascoltare ancora il suono profondo e antico della terra, le suggestioni dei paesaggi. Se Goliarda apprende e poi scrive per una sorta di mimesis, è la voce dalla natura che si è impossessata di Nica: “Io copiavo, lei inventava”. Quegli schiaffi interruppero inesorabilmente un percorso ambiguo e affascinante di pulsioni misteriose: “Non solo il suo corpo, ma la fantasia mi rubarono quei due schiaffi. E solo il suo corpo e la sua fantasia?”. Questo breve capitolo, questa digressione fortemente lirica e suggestiva, è cruciale perché spiega la ferita, l’origine della sofferenza esistenziale che ha poi condotto l’autrice alla scrittura (da intendersi come imitazione della realtà): la separazione da un’armonia primordiale tra l’uomo e l’ambiente circostante. Quel potere creativo e inventivo che invece Nica, attraverso un universo di simboli, possedeva e che le permetteva di raccontare.
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