03 Ott Titane
TITANE
di Emma Locatelli
Si accendono le luci in sala. Nonostante i volti siano parzialmente coperti dalle mascherine, riesco a scorgere molti sguardi perplessi, confusi, scettici.
Gli spettatori sembrano domandarsi: cosa abbiamo visto esattamente? Uno dei molti pregi del secondo lungometraggio della regista francese Julia Ducournau – Palma d’oro a sorpresa al 74° Festival di Cannes – è il suo essere inclassificabile, il suo trascendere ogni genere pur comprendendoli (quasi) tutti. Titane è un’opera che non scende a compromessi. Suscita nello spettatore un’adesione incondizionata o una totale repulsione nei confronti di ciò che viene mostrato sullo schermo.
Di cosa parla Titane? È la storia di Alexia (interpretata magistralmente da Agathe Rousselle, qui al suo esordio attoriale), una giovane donna che, fin da bambina, nutre una passione viscerale per le automobili, fino ad esserne sessualmente attratta. In seguito a un incidente stradale, Alexia ha subito un’operazione in cui le è stata inserita una placca di titanio in una tempia. Fin dalle prime battute del film la regista vuole dunque evidenziare come Alexia sia un essere ibrido, nuovo: è fatta di carne e di metallo. Il titolo, infatti, rinvia sia al metallo utilizzato per le protesi chirurgiche, sia a un Titano declinato al femminile.
Alexia non è né un’eroina né un’antieroina, bensì la prima rappresentante di una mitologia moderna, di un’umanità nuova. Al pari dei titani del pantheon greco, considerati come le forze primordiali del cosmo, Alexia è puro istinto, è un essere al di là del bene e del male, che non pone alcun limite morale al suo agire nel mondo. È mossa da una pura pulsione di morte, da un’attitudine autodistruttiva che la porta a uccidere compulsivamente chiunque incroci il suo cammino.
Nella prima parte del film, infatti, è impossibile per lo spettatore provare qualsiasi forma di empatia nei confronti della protagonista. Questa totale mancanza di umanità viene resa iconograficamente attraverso scene di efferata violenza, deliberatamente scioccanti e disturbanti, ma che non risultano mai gratuite in quanto perfettamente coerenti con la natura sub-umana del personaggio principale. L’uso esplicito della violenza è determinante per comprendere la successiva evoluzione emotiva della protagonista. Paradossalmente, tanto più l’elemento inorganico prende possesso del corpo di Alexia, quanto più la protagonista avanza nel suo tragitto verso il recupero di una dimensione umana, da cui inizialmente sembrava totalmente estraniata, alienata. Nella progressiva mutazione che il corpo subisce si annida dunque il senso dell’opera che, in maniera provocatoria quanto originale, elidendo le cause per concentrarsi quasi esclusivamente sugli effetti, si sviluppa come un percorso multisensoriale di redenzione.
Un itinerario nel postumano che la Ducournau costruisce dando un ruolo di assoluta centralità al corpo. Titane è, infatti, un film radicalmente corporale, viscerale. La regista spinge fino alle estreme conseguenze il transumanesimo, chiedendo allo spettatore un vero e proprio atto di fede, ovvero di accettare incondizionatamente l’“inconcepibile” (nell’accezione letterale del termine), ciò che non può essere concepito dalla nostra mente prima ancora che dal nostro corpo: la possibilità di un amplesso procreativo fra un essere umano e una macchina.
Per la Ducornau la verità passa innanzitutto attraverso il corpo, più precisamente attraverso la sofferenza che il corpo esperisce. Il dolore esistenziale si traduce così in esperienza fisica. Molte delle scene deliberatamente disturbanti di cui è costellata la prima parte del film, servono appunto a farci provare, a livello sensoriale, la stessa sofferenza patita non solo dalla protagonista, ma da tutti i personaggi che animano la vicenda narrata.
Quando si parla di corpi mutanti, di ibridazioni tra uomo e macchina, tra carne e metallo, è quasi un riflesso incondizionato pensare all’opera di David Cronenberg, il regista canadese che ha fatto della riflessione sulla mutazione corporea una delle inconfondibili cifre stilistiche del suo cinema. In particolare, in Crash (vincitore del Gran Premio della Giuria di Cannes nel 1996), partendo dall’omonimo romanzo dello scrittore britannico James G. Ballard, Cronenberg spinge al limite l’idea della compenetrazione tra carne e metallo attraverso una serie di scontri automobilistici.
È innegabile che l’automobile sia stata la grande protagonista dei cambiamenti della vita umana nel XX secolo. La macchina è tuttora uno dei principali feticci dell’uomo, è divenuta la sua estroflessione meccanica, il suo involucro, la sua corazza, il suo esoscheletro.
Sarebbe del tutto erroneo considerare Titane al pari di una mera rivisitazione di Crash. Ducournau riprende sì alcune tematiche care al cinema di Cronenberg, ma declinandole e attualizzandole in modo assolutamente personale e originale. In Crash le immagini appaiono deliberatamente asettiche, gelide. La regia procede secondo un andamento particolarmente posato, lento. Domina un’atmosfera glaciale, amplificata da una fotografia volta a evidenziare il freddo vuoto interiore dei personaggi. Inoltre,l’erotismo di Cronenberg è anodino, patinato, feticistico, mortifero, di una freddezza chirurgica. Gli amplessi sono messi in scena attraverso algide composizioni di geometrie sessuali.
Titane, al contrario, è pervaso da una sensualità vitalistica e dirompente, da una regia dinamica, dall’andamento intenso e febbrile, che raggiunge livelli tecnicamente altissimi (basti citare il lungo piano sequenza iniziale che accompagna l’entrata di Alexia nel salone automobilistico dove si esibisce come ballerina, danzando sui cofani delle auto in esposizione). La grandiosa messa in scena è esaltata sia dalla sontuosa fotografia di Ruben Impens – in cui il contrasto fra i toni caldi e i toni freddi viene esasperato in chiave espressionista -, sia dalla colonna sonora di Jim Williams, che alterna sapientemente ipnotiche sonorità elettroniche, dominate da strumenti metallici, a sonorità solenni come i corali di Bach per la Passione secondo Matteo. Soprattutto, Ducournau inserisce nel film un elemento del tutto assente nel film di Cronenberg: un’ironia, a tratti cinica e grottesca a tratti sfociante nella comicità, emblematica della capacità della regista di muoversi agilmente fra vari registri narrativi e formali. Il cambio di tono si avverte principalmente nella seconda parte del film, in cui compare l’altro grande protagonista della vicenda: Vincent (interpretato da Vincent Lindon, qui in un ruolo del tutto inconsueto per lui), un vigile del fuoco di mezza età che fa (ab)uso di anabolizzanti, segnato dal dolore per la scomparsa del figlio ancora bambino.
L’incontro tra Alexia e Vincent determina una svolta decisiva nel film e segna l’avvio del percorso della protagonista verso la scoperta della propria dimensione umana. Quello fra Alexia e Vincent è in primo luogo l’incontro di due solitudini, di due esseri pericolosamente alla deriva. I due stringeranno un improbabile legame padre-figlio che li porterà a colmare quel grande vuoto al centro delle loro vite. Vincent vorrà a tutti i costi riconoscere in Alexia il figlio Adrien, scomparso nel nulla in tenera età. Alexia, a sua volta, riceverà da Vincent quell’amore incondizionato che il padre le ha sempre pervicacemente negato, rifiutandosi costantemente di guardarla negli occhi perché inorridito dalla sua apparente “mostruosità”.
Il cuore pulsante del film è proprio la totale accettazione dell’altro in tutta la sua inquietante alterità. Alexia prende coscienza della propria umanità attraverso lo sguardo carico di amore di Vincent. È un’esperienza sconvolgente per lei. L’inizio di un’educazione sentimentale che la trasformerà da agente di morte a donatrice di vita, qualunque forma essa abbia.
Titane è un’opera eccessiva, violenta, immaginifica, provocatoria e visionaria. Un film inclassificabile, controverso, audace e coraggioso, che sicuramente non piacerà alla maggior parte degli spettatori, ma di fronte a cui è impossibile restare indifferenti.
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