22 Ott Il canto delle radici
Scrivere, incomincia con lo sguardo di Orfeo
Maurice Blanchot, Lo spazio letterario
[…] in quanto l’espressività più non serve, anzi tramontò,
e ad aver cara la luce della parola si muore
Anna Maria Ortese, Il porto di Toledo
Il canto delle radici
di Sharon Vanoli
Dall’altro lato del letto, mi guardi. Perché? Vorrei dirti: vane le tue parole. Eppure, mi manchi. Come m’intossica tutto quello che, da me, non riesco a far scivolare in te. Mi riempie le vene; e nel sangue io non ho più sangue, ma metallo fuso. Di sera è rovente, ustionante. Allora, anche se nocivo, lascio che faccia, e lo ringrazio di questa gioia a rovescio: sapere che, in me, ancora circola una smania.
Ma di mattino, il metallo solidifica – gelido, così pesante. Mi sollevo rigida dal letto, e per tutto il giorno la porto nelle gambe – questa pesantezza –, come un rimbombo di ferro.
Non so quando ho smesso di credere in te – nelle tue verità flautate. Ho smesso in quel momento anche di credere in me. Perché parlare oltre? Perché la mia voce persiste a comandare? Le parole sono pesanti – di rumore. Mi spingono giù – sottoterra. E dalla terra ricevo nuovi sentori.
Ho camminato lungo i sentieri, stamattina. Non c’era chiarore, ancora, nel bosco. Solo il profilo lontano delle montagne era irradiato di sole. Sotto i miei piedi, nient’altro che lo scricchiolio della brina – questa commozione notturna, raggelata, che attende la luce. Ma io non voglio più luce; la mia luce è caduta – oro colato – dentro la terra. Insieme a lei dovrei forse sotterrarti. E poi dormire – io sola – sopra il tessuto di foglie che vi copre.
Dormire. Io, che sono allodola, scopro ora la grazia del torpore sonnolento. Mi piace tutto ciò che ho sempre odiato: chiudere gli occhi, sentire il respiro mostruoso del buio che divora la stanza – e divora me. Oh, che pace, sentire la mia voce velenosa che muore nel sonno. E che tu, anche, scompari. Facciamo silenzio, fino al mattino. Non siamo più niente. Nella gola del buio, siamo: notte lieve e silenziosa.
Con l’arrivo della luce, di nuovo ti vedo. Vorrei nasconderti, ma non posso. Allora mi nascondo io. Piego il collo sotto le coperte, come un lombrico mi contraggo – gli arti gelati, solidificati. La mia smania si rapprende, e io divento: verme di metallo.
Perché esprimere? Perché dare forma sensuosa alla voce? Il silenzio lusinga più di te, vorrei persuadermi a credere. Ma tu mi hai insegnato a crescere parole. Sfoltirle, quando serve; renderle sonore; farle danzare nel ritmo; creare cori. Adesso, che non sanno più uscire, sono solo rumore interno – ferroso, stridente. Macchie di ruggine sulla mia lingua: parole latenti, parole ossidate. Sgradevole ammettere la vanità della sindrome, e dirmi che sono malata di una voce – la mia.
Nel bosco è passata una ninfa cattiva, invernale. La nebbia infeltrisce l’aria. Nei mucchi di foglie lungo il sentiero, nessun colore. Ma quanta fede è viva nei rami, e quanta onestà nell’essere nudi. Allora è vero che senza parole siamo più veri – che senza parole, siamo. Vorrei crederlo, e piantarmi anch’io nel terreno. Seminare la voce, lasciare che sputi le sue scorie rugginose nel buio ctonio dove la morte è fertile, e a gridare è soltanto il silenzio.
Tornando verso casa, oggi, ho incontrato una bambina. Raccoglieva scarti di foglie con le dite guantate, delicatamente lisciava ogni lembo, per poi infilarli tra le pagine di un taccuino che aveva con sé.
“Stanotte nevicherà”, mi ha detto, tornando subito concentrata sulle mani.
“Lo so. È per una ricerca?”, ho domandato, indicando il cumulo secco ai suoi piedi.
“No. È per rendere più bello il mio diario segreto”, ha risposto, sventolando con la mano libera un libro azzurro. Ho intravisto pagine fitte, una calligrafia minuta. La bambina ha continuato a scuotere il braccio, fiera e luminosa. Ho teso le labbra a filo, in un sorriso inebetito, non sapendo che altro fare. Intanto fissavo i fogli fluttuanti di quel piccolo Orfeo; ne ascoltavo il fruscio, come si ascolta una voce di sirena malata.
Ho cucinato sovrappensiero, ho cenato senza pensare. Ho rimestato il liquido vaporoso della zuppa con poca intenzione. Ma il cibo non è metallo fuso, e la fame è sincera, e presuntuosa nel ricordarci che cosa siamo – che cosa preesiste alle smanie. Quanto incanto e quanta leggerezza nella nobiltà del corpo – vita che gode di esistere e di sopravvivere. Ho fumato in giardino, sotto il tetto spiovente. Un coagulo di nuvole si mangiava la luna. Era forte nell’aria la profezia della neve – un odore pulito, d’umidità non greve ma fresca. E poi eccola scendere. Sotto la luce obliqua dei lampioni, ho osservato la sua caduta. Ma era neve mista a pioggia – acqua grassa, di latte – e i fiocchi precipitavano velocemente, lasciandosi dietro scie liquide, per qualche istante, come fossero comete. Spettacolo di quiete, grazia senza voce – vera coralità.
Ti ho preso dal bordo del letto e ti ho posato altrove, per restituire alle lenzuola il candore del silenzio. È colpa tua se sono malata. A te devo l’incantesimo della vanità – malie velenose. E queste contrazioni metalliche, innaturali. Vorrei, da verme, tramutare in serpente, e mordermi da sola – per far tacere la mia voce.
Nel mezzo della notte, ho sognato un sentiero nel bosco. C’era la bambina, accanto a me, con il suo mucchio di foglie stretto fra le mani. Si accovacciava ai piedi di un castagno, e afferrando un picciolo alla volta, lo portava all’altezza del naso, sotto gli occhi seri, a metà tra il suo viso e il mio.
“Questa, sei tu”, diceva. E dalla parte dell’apice infilava la foglia in una piccola fossa scavata nel terreno, come fosse un seme.
Così procedeva, e ogni foglia ero io. Seguivo i suoi gesti attentamente, assecondavo il gioco del rituale forzandomi a non ridere. Ma la gioia nell’assistere era sincera. Sempre più chiaramente lo vedevo: il mio destino di radice. Vita oltretombale oltre la morte della parola.
Tu puoi credere che io voglia tornare. L’ho creduto anch’io, quando ho sentito la mia voce chiedere: “Quante foglie mancano?”. Ma poi l’ho zittita, faticosamente; mi sono morsa le labbra. Non più mia è quella voce – a te solo appartiene. La bambina ha esposto i palmi vuoti, ha coperto la cavità con manciate di fanghiglia. Si è afflosciata su un lato, l’orecchio poggiato in terra. Ho fatto altrettanto. Allora l’ho udito – silenzio parlante, canto sommesso del sottosuolo. Lo abbiamo ascoltato insieme, io e la bambina. Con la punta dell’occhio la osservavo. Ho seguito la sua palpebra sollevarsi e abbassarsi, sempre più lentamente, fino a quando il moto è cessato, e il suo respiro si è calmato. Ho chiuso le palpebre anch’io. Il brusio del coro si è fatto più alto, sempre più prossimo. La terra ha tremato.
Quando ho aperto gli occhi, tutto era buio e silenzio.
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