16 Nov Ariaferma. Conversazione con Leonardo Di Costanzo
Ariaferma. Conversazione con Leonardo Di Costanzo
a cura di Emma Locatelli e Ivana Margarese
I.M: Ariaferma è un titolo del tutto azzeccato per questo film, in cui il tempo è sospeso e registra movimenti minimi. A me, complici anche alcune immagini iniziali, ha fatto pensare al movimento dello scolpire e alle sculture naturali. Volevo sapere se questa suggestione potesse trovare un qualche tipo di sponda, oppure rimanesse una mia suggestione.
LDC: È una suggestione assolutamente legittima e autorizzata. Io non ci avevo pensato. Il film è stato pensato lavorando molto e contando molto sulle suggestioni, sugli interventi dello spettatore. È come se ci fossero dei degli spazi vuoti che lo spettatore deve riempire. Volevo che tutta la narrazione non fosse molto realista, che ci si dovesse un po’ staccare dalla semplice osservazione della realtà. Si doveva costruire un universo un po’ sollevato dal semplice dato reale, che virasse verso l’apologo, verso il fiabesco.
I.M: A me ha dato proprio il senso di una scultura, che si mostra per sottrazione lentamente.
LDC: Questa idea delle sculture, dei richiami a dei visi umani un po’ ancestrali, aveva colpito anche me, ed è il motivo per cui ho deciso di mettere quelle immagini iniziali.
E.L: Quanto ha influito il tuo passato da documentarista nel girare un film così asciutto, calibrato, tutto giocato sulla sottrazione, in cui ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo assumono molteplici significati rispetto a quello immediato e, soprattutto, un film così refrattario a ogni retorica?
LDC: Questa è una cosa che io rivendico. Mi rendo conto che tendo molto a costruire un tipo di narrazione come quella che hai descritto. E questo lo si può fare molto di più in un film di finzione. C’è la possibilità di poter misurare, di poter quasi cesellare le parole e i movimenti interiori dei personaggi. E tutto questo lo si può fare molto più facilmente in finzione che in documentario. Se vogliamo questo è anche in parte il motivo per cui, a un certo punto, mi sono reso conto che per me era impossibile fare questo tipo di lavoro nel documentario, quantomeno con gli strumenti che io mi so dare per fare documentario. Sono nate nuove esigenze. Il tipo di documentario che facevo era “direct cinema”, un tipo di cinema in cui si cattura direttamente la realtà senza artifici, in cui si filmano le persone in azione. Sono i personaggi che si descrivono attraverso le azioni, ma ovviamente tali azioni non le puoi controllare.
I.M: È la prima volta che lavori con attori professionisti. Entrambi i protagonisti [Toni Servillo e Silvio Orlando] hanno affermato che, nel leggere il copione, avevano trovato più congeniale la parte che non hanno interpretato. Eppure sono stati capaci di “scolpirsi” nell’immaginario dello spettatore. Puoi dirci qualcosa in merito?
LDC: È stato molto bello e molto interessante. Avrei dovuto filmare il momento in cui ho parlato con Toni e Silvio di recitazione e del perché proponevo loro di scambiare i ruoli inizialmente previsti. È stata una discussione bellissima in cui si è parlato di recitazione, di rappresentazione, di teatro di rappresentazione e di teatro invece più dell’essere. Se avessi filmato le nostre conversazioni, ora avrei un documentario straordinario sulla recitazione teatrale, su Eduardo [De Filippo], sulle avanguardie storiche. Toni è una persona che studia molto e quindi si è molto incuriosito al progetto recitativo che gli stavo proponendo. Silvio Orlando, inizialmente, aveva un po’ di reticenze, perché non sapeva se sarebbe riuscito a risultare minaccioso, soprattutto in un tipo di sceneggiatura come questa dove le minacce non vengono espresse a parole, ma tutto passa attraverso il corpo. Toni era incuriosito all’idea di interpretare un personaggio medio, che però ha in sé una ferita interna, e questa ferita la mostra più che nasconderla, come accadeva invece in altre sue interpretazioni. Per entrambi, i ruoli interpretati in questo film sono stati un’occasione di ricerca. Verso la fine delle riprese, sia Toni sia Silvio mi hanno confessato di non sapere se la loro recitazione avrebbe funzionato. Ho detto loro di non preoccuparsi perché, a mio avviso, erano stati bravissimi, anzi straordinari. Li ho assicurati che sarebbero stati le prime persone a cui avrei mostrato il film. Cosa che, stranamente, è poi avvenuta. Dico stranamente, perché in genere soffro moltissimo quando devo mostrare a qualcuno un film non ancora del tutto finito. Invece, mi sono goduto insieme a loro la visione in sala del film, nello studio di Roma.
E.L: “L’ordine di trasferimento può arrivare in qualsiasi momento, anche domani”, ripete Gaetano Gargiulo, l’ispettore di polizia penitenziaria, interpretato magistralmente da Toni Servillo. Gaetano ripete in continuazione quella frase, ma è il primo a non crederci. Perché Ariaferma è una sorta di Deserto dei Tartari, un Aspettando Godot delle carceri. È il racconto di una situazione anomala e carica di tensione, che comprime e sintetizza le dinamiche carcerarie, mettendo in risalto tutta la loro assurdità. Questi due riferimenti letterari hanno in qualche modo contribuito a rendere il carcere uno spazio dentro a un tempo sospeso, un altrove astratto e indefinito?
LDC: Sì, sono stati presenti nelle discussioni in fase di sceneggiatura come paradigmi. Io metto spesso i personaggi in questa sorta di sospensione, come se avessi bisogno di metterli in quella sospensione per far sì che i personaggi si rivelino, altrimenti rischierebbero di rimanere sempre nascosti dal ruolo. Una psicanalista, con cui ho avuto occasione di parlare, mi diceva che questo tipo di lavoro viene fatto spesso anche in psicanalisi.
E.L: I personaggi di Gaetano Gargiulo e don Carmine Lagioia sono i due poli magnetici del film, quelli che meglio di tutti comprendono dove si trovano, in che situazione sono finiti e come si devono comportare. Il rapporto fra i due uomini diventa quindi cruciale per le sorti di tutti. “Io e te non abbiamo niente in comune”, risponde bruscamente Gaetano a don Carmine, in un momento di tensione. Ma lo sa benissimo che non è affatto così. Tutto il film sembra costruito per confutare questa tesi. È così?
LDC: È un dubbio. Confutare è già una presa di posizione ben precisa. L’unica cosa di cui sono certo, riguardo a quella sequenza e alla dichiarazione del personaggio di Gaetano, è che volevo seminare il dubbio se Gaetano, in quel momento, ci credesse veramente o meno a quello che sta dicendo. Non lo so nemmeno io. Ho chiesto a Toni di recitare in modo molto rigido, fisso, senza muovere un muscolo, solo le labbra. Era cruciale che desse l’impressione di stare facendo uno sforzo, lo sforzo di rientrare in un ruolo. Gaetano ha bisogno di prendere le distanze da Lagioia perché si è reso conto di essersi esposto troppo nel chiedergli di aiutarlo a cercare Fantaccini. Si è servito dell’aiuto di Lagioia e per questo ha bisogno di prendere di nuovo le distanze da lui. Gaetano sta facendo uno sforzo enorme, anche perché ha appena assistito a una scena di grande solidarietà umana fra il giovane Fantaccini e il vecchio pedofilo. Non a caso, la scena del lavaggio del corpo ha richiami cristici.
I.M: Il film è anche una riflessione sulla colpa, sulla pena e sugli strumenti della società al riguardo. Alcune scene e alcune posture del corpo le ho associate alla rappresentazione iconografica dell’apostolo Pietro o a immagini legate alla tradizione cristiana, come nel caso della scena della cena comune tra sorveglianti e detenuti.
LDC: L’idea del cristianesimo delle origini ci ha accompagnato in fase di scrittura. L’idea della raffigurazione è qualcosa di cui abbiamo parlato con Luca Bigazzi [direttore della fotografia] per quanto riguarda l’illuminazione. La pittura è stata un riferimento molto importante, per ricollegarmi al discorso sul cristianesimo. Caravaggio, giusto per citare un esempio, ma non solo lui.
E.L: I detenuti in attesa di trasferimento vengono collocati in un’area carceraria che ha la struttura del “panopticon” ideato da Jeremy Bentham. Nel suo saggio Sorvegliare e punire, Michel Foucault ha preso il panopticon come modello e figura del potere nella società contemporanea, un potere che non si cala più sulla società dall’alto, ma la pervade da dentro attraverso l’invisibilità del controllo. La scelta del panopticon voleva suggerire un parallelo fra i meccanismi che regolano le carceri e quelli che regolano le società contemporanee?
LDC: Anche Foucault è stato un autore con cui ci siamo confrontati in fase di sceneggiatura. Pian piano ci si è resi conto che la narrazione stava prendendo corpo e che la vicenda narrata, così come il rapporto tra i personaggi, travalicava lo specifico carcerario. Anche l’elemento religioso, cristico, di cui parlavo prima, è scaturito gradualmente. Ad esempio, l’idea dei dodici a tavola non è nata in modo programmatico. In fase di scrittura non lavoriamo secondo un piano prestabilito, seguendo uno schema classico. È una modalità di scrittura che non mi appartiene. Per me alla base di tutto ci sono i personaggi e i rapporti che si instaurano fra loro.
E.L: I protagonisti di Ariaferma sono separati sia da sbarre reali sia da sbarre invisibili, mentali, che imparano progressivamente a spezzare nel corso del racconto. L’idea alla base del film era quella di usare il carcere come metafora per parlare dell’isolamento collettivo? Non solo quello che viviamo attualmente a causa della pandemia, ma, più in generale, quello che da sempre genera divisioni, paure, pregiudizi e settarismi?
LDC: Sì. Ariaferma nasce anche dal dialogo che ho da molto tempo con il mio produttore, Carlo Cresto-Dina: ci scambiamo libri e altre cose. Con Carlo siamo molto amici. Facciamo le cose che appassionano entrambi. Carlo stava leggendo alcuni libri che trattavano del perché l’essere umano si fosse sviluppato in modo differente rispetto agli altri animali. Ciò è avvenuto perché, a un certo punto, gli esseri umani hanno smesso di farsi la guerra. Si tende sempre a pensare che gli uomini debbano necessariamente farsi guerra tra loro, mentre oggi molti studi di etologia e antropologia hanno evidenziato come sin dagli albori gli uomini abbiano cominciato a risolvere le questioni attraverso il dialogo, evitando lo scontro, cercando di creare comunità.
E.L – I.M: Ariaferma è splendidamente fotografato da Luca Bigazzi. Come è nata la vostra collaborazione?
LDC: Con Luca avevo già lavorato in occasione del mio primo lungometraggio di finzione: L’Intervallo, che intrattiene un dialogo molto stretto con Ariaferma, sebbene L’intervallo sia girato in modo completamente diverso. L’intervallo tratta di due giovani adolescenti chiusi in uno spazio abbandonato, che devono trovare il modo di stare insieme nel corso di una giornata. Per certi versi è lo stesso tema di Ariaferma, declinato però con due adolescenti napoletani. Mi rendo conto che tendo a tornare sempre sui temi che mi stanno maggiormente a cuore. Nel caso de L’Intervallo i due protagonisti erano due giovani attori non professionisti, proprio per questo Luca ed io non abbiamo voluto costringerli in dei movimenti prestabiliti: abbiamo voluti lasciarli liberi, essere noi ad adeguarci a loro e non il contrario. Ne è risultato un film illuminato con pochissime luci. In Ariaferma l’impianto filmico era molto diverso. Con Luca non c’è bisogno di lunghe discussioni: è molto veloce e molto istintivo, ma al contempo estremamente preciso.
I.M: La musica di Ariaferma è molto bella e molto particolare. Come l’hai scelta?
LDC: Nei miei film precedenti avevo usato pochissimo la musica. Ho sempre il timore che risulti ridondante. Per Ariaferma, però, ho voluto tentare di inserire anche la musica. Ho chiesto quindi l’aiuto di un mio amico compositore [Pasquale Scialò], che viene dal teatro, e insieme abbiamo lavorato in modo molto libero. Abbiamo utilizzato i cori della passione della costiera amalfitana e i rumori del carcere rielaborati in chiave jazz.
I.M: Dal cinema documentario provengono registi di grande valore come Giorgio Diritti, Agostino Ferrente, Michelangelo Frammartino. È un cinema che non tanto intrattiene ma stimola a pensare. So che tu insegni in varie scuole di cinema documentario. Qual è la tua esperienza in merito?
LDC. Io credo di essere innanzitutto un insegnante e poi un regista. Mi piace molto insegnare. Insegno documentario, nonostante non lo pratichi più. È importante far sì che ogni studente sia libero di sviluppare la propria cifra stilistica. Ho iniziato a insegnare negli Ateliers Varan di Parigi, la cui vocazione essenziale è quella di andare nei Paesi in via di sviluppo, dove il cinema è assente, e creare delle scuole di cinema. Quando si insegna in una scuola di cinema di questo tipo, bisogna evitare ogni atteggiamento di colonialismo culturale. Ogni Paese ha una propria tradizione della rappresentazione – che genera un particolare tipo di immaginario – ed è giusto rispettarla. Sebbene le tappe del percorso di apprendimento siano sempre le stesse, si deve cercare in ogni modo di sollecitare il modello di rappresentazione specifico di ogni Paese.
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