25 Dic Il triangolo
Il triangolo
racconto inedito di Silvia Penso
immagine in evidenza di Stefania Onidi
Oggi è il ventiquattro dicembre e domani, lo sanno pure i muri, è Natale.
“Io odio il Natale” dico a Sara al telefono.
“Oddio Luca pari il puffo quello che gli rodeva sempre, come si chiama?”
“Boh. Dopo mi vedo con Giorgio”
“Ah”
“Che vuoi venire?”
“Macché, mia madre vuole che l’aiuti a chiudere i cappelletti, che è una tradizione e bla bla bla, e quando lei non ci sta più chi li fa e bla bla bla, e che tristezza. Mi sembra che le tradizioni del Natale non facciano altro che rimarcare oggi l’assenza che sentiremo dopo, quando niente di tutto questo ci sarà più”
“M’hai attaccato una mina troppo triste persino per il Natale”
“Stronzo. Vabbè, ciao. Oh, e guai a te se gli dici a Giorgio che mi piace”
“Noooo, t’ho detto di no. Ciao stolta, a dopo”
“Bravo” e sento il click.
Io e Sara siamo inseparabili. Però le piace Giorgio, e questo è un problema.
“Oh, hai finito di stare lì a guardarti i piedi?” è mia sorella
“Perché non vai ad aiutare padre con le luci? Lo sai che gli piace farle vedere a tutti e accendi, spegni, e sopra il presepe e sotto il presepe, e poi fa a gara con zio Pietro.
“Tanto vince zio Pietro che ha più soldi. E te che fai?”
“Guardo madre che cucina così a lei sembra che l’aiuti”
“Che stronza, facciamo a cambio”
“Manco morta”
Mi avvio verso il salotto. Padre sta allungando il tavolo, la tovaglia rossa è già pronta, piegata e inamidata dall’anno scorso. Sulla consolle ci sono i bicchieri a calice delle feste, e sento madre che armeggia nella vetrina per prendere i piatti con gli angeli. Che palle. Mi sale già l’angoscia esistenziale. E poi la vedo, davanti al piano della vetrinetta c’è anche la bottiglia. È uno champagne famoso e sta lì da cinque anni. Noi ci riferiamo a lei come a “La Bottiglia”, per noi è un’entità, un simbolo, una personificazione. Quando nonna ce l’ha regalata ha detto che dovevamo aprirla solo per un’occasione davvero speciale. Sapeva già che un mostro l’aveva abitata, e questo era il suo modo per esserci ugualmente in quel momento unico, qualunque fosse stato. Ma la bottiglia è sempre sul ripiano della vetrina e nessuna occasione sembra abbastanza importante per aprirla. Forse perché la vita fa schifo. O forse perché ci piace così, ci sembra che lì, da quell’angolo che sovrasta il tavolo, ci guardi nonna, e prometta sempre quell’evento speciale di là da venire.
Ed ecco, dopo aver messo due ore di lucine e intrecci vari di colori luminosi e palloncini intermittenti dal balcone al bagno, esco. Giorgio mi aspetta. O meglio, come al solito lo aspetterò io. Però è bello quando tutto trafelato corre per le scale e io lo guardo, e sta scendendo per me anche se non lo sa. Non sa niente Giorgio, neanche che mi piace.
Giorgio arriva ansante. I ricci neri saltellano. Sorride. Maledetto Giorgio. Maledetto me che lo amo. Che non sono bionda e con le tette grosse come piacciono a lui le ragazze. Che non posso dargli quello che vorrebbe. Che sono un uomo.
“Scusa ho fatto tardi”
“Figurati”
“Dove andiamo?”
“Boh”
“Allora accompagnami, devo fare il regalo a quella scassaminchia di mia sorella”
Rido. Rido sempre perché poi a lui brilla lo sguardo.
Il centro è pieno di luci sopra i negozi e luminarie da un lato all’altro della strada. Giorgio parla a raffica della sua squadra, dell’ultima partita che era fuori forma, ha fatto schifo. Non per me. L’avrei abbracciato mille volte avvolgendomi nella sua maglietta sudata. Invece a fine partita gli ho battuto il cinque.
Camminiamo nella baraonda degli ultimi acquisti. Le persone ci vengono incontro come un fiume umano e trascinano sorrisi rilassati, di festa. Hanno lasciato da qualche parte, in qualche angolo remoto tra la milza e il fegato ingrossato, i problemi e la tristezza. Passano con le buste, chiacchierando o di fretta. Ognuno è la sua storia, e porta con sé, dentro altre buste, i ricordi, la famiglia e gli alberi la mattina di Natale e i regali che le manine piccole non riuscivano ad aprire “Non ti mette tristezza il Natale?”
“E perché?” risponde Giorgio “Becco soldi e regali e poi la tombola mi piace. Mio nonno, che taglio, ci mette due ore a dire i numeri con tutti i crismi dialettali e ci fa salire un’adrenalina isterica quando mancano pochi numeri alla fine. E poi beviamo tutti e nonna s’ubriaca e rutta, ci fa spanzare e non ci capisce niente, scambia tutti i sei per sette e i nove e i sei, no vabbè che ridere” e ride.
“Sì, detta così sì”
“L’unica nota dolente è il bollito che poi nessuno lo mangia e si trascina nel frigo una settimana. Che schifo”
“Boh, sarò io che sono nostalgico. È che da piccoli, no, c’era magia”
“C’hai il trauma di Babbo Natale? Quando m’hanno confessato che non esisteva gli ho subito chiesto a mia madre, e quindi manco Gesù e Dio esistono? Mia nonna per poco non sviene”
Lui mi fa ridere. Vorrei volare attraverso la vita con la sua leggerezza. Vorrei spiegargli questo malessere che ho dentro, il senso che non trovo, che tutto è inutile e io inadeguato a tutto. Vorrei fargli vedere me. Vorrei. Invece dico “Un taglio a casa tua. Devi invitarmi”
“E vieni, così magari ti passa st’aria da poeta maledetto che c’hai”
“Sara pure me l’ha detto. Dice che mi sono smagrito e ho messo due occhi così che sembro Gollum”
“Taglio Sara”. Poi lui mi guarda tutto intero e il suo sguardo indagatore mi mette addosso un brivido, esposto vorrei nascondermi o almeno fare il disinvolto. Invece mi sa che sto stringendo i pugni nello sforzo di occultare un’emozione che mi invade, che è lo sguardo di Giorgio su di me. In un secondo la mia testa pazza immagina noi due nudi su un letto a baldacchino e lui che mi dice t’amo e mi spinge sulle lenzuola e poi… Ma lui mi da due colpi su una spalla e dice “Naaa stai una cannonata”
“Senti, a proposito di Sara. È un po’ che te lo volevo chiedere, perché non voglio che tra noi ci siano problemi, lo sai che, insomma, ci tengo a noi” io muoio, mi sa che mi scappa un sorriso di sguincio involontario “e allora, volevo chiederti, noi non parliamo mai di queste cose. Insomma, non è che ti piace Sara?”
Ah era questo “Ma no figurati”
“Me lo diresti?”
Intanto arriviamo alla metro e andiamo a passo lento nella fila antropomorfa convogliata a due a due per millemila miglia e neanche siamo lontanamente ai tornelli, le gambe si incastrano nelle buste rigide con le coccarde di quelli davanti, quelli dietro ci acciaccano i calcagni e mi tolgono una scarpa, io mi fermo imbarazzato, la fila si intruppa tipo mandria, Babbo Natale barbone suona il violino, è bravo, vorrei dargli degli spicci ma ho pigrizia di cercarli in tasca.
“Ma sì. Giuro, non mi piace”
“Bene”
“Perché?” Scemo stupido ingenuo
“Ehhh te lo devo dire a questo punto. È che piace a me”
“Ma come?” le gambe mi si sono fatte molli. Controllati. Controllati. La voce s’incrina. Controllati. La saliva pesa nella gola, è piombo.
“Ti stupisce?”
“Un po’” riesco a dire
“Stupisce anche me. Ma che ti devo dire. A un certo punto mi sono accorto di essere geloso. Anche di te sai. Che, insomma, ci stai sempre insieme. Il triangolo anche no”
“È che a te piacciono diverse, di solito. Sara è piatta, bassina” Mi sento una cacca e smetto. Sara è mia amica.
“Vero? Fa strano. Ma tipo, guarda, mi è presa brutta. La sto sempre lì a pensare, e niente, prenderò coraggio e le chiederò di uscire. Dici troppo scontato a capodanno?”
Saliamo sulla metro e lui mi parla di Sara. Ogni parola è un masso che schiaccia gli organi interni, rattrappisce il posto convenzionale del cuore. Dovrei dirgli che anche lei è pazza di lui. Ma non ce la faccio. Non ancora. Devo prima digerire questo bolo. Desidero prolungare ancora un po’ il tempo in cui lui è qui con me e non sta con lei. È ancora libero. È ancora possibile. Invece no. E io lo so. Ma non voglio.
Ci salutiamo con la solita pacca sulla schiena ma questa volta fa male.
Cammino verso casa. Le luci della sera e del Natale brillano sul Tevere. Beato te, Tevere nostro, che stai lì e scorri, scorri e basta e non pensi, non hai sesso, e senza emozioni guardi gli uomini di oggi come guardavi quelli di ieri. L’acqua scivola, passa sulle sponde sciabordando schiuma. C’è odore d’inverno, di castagne arrostite, di fumo di comignoli. Loro sono un uomo e una donna. È tutto facile. Semplice. Normale. Io no.
Guardo giù. I gorghi scendono verso il loro destino che è il mare. Il mio quale sarà? Rimango con le braccia incrociate e da lontano, nei vicoli, suona jingle bell. La gente si saluta sui marciapiedi. Una coppia si bacia stringendosi dentro le sciarpe rosse. Un ratto passa lungo l’argine. Io sono ancora io. Sarebbe meglio farsi trascinare da quel gorgo. Volare giù da qui, affondare amniotico nel freddo dell’acqua, sul fondo, la corrente, il corpo molle, poi più niente. Sospiro. Fa freddo. Mi incammino. È Natale.
Biografia
Silvia Penso è nata e vive a Roma. Ha frequentato il liceo classico, studiato letteratura e cinema all’università e lavorato alcuni anni per piccole case editrici come editor e correttrice di bozze. Suoi racconti sono usciti sulle riviste Lunario, Smezziamo, Quaerere, Birò (collabora inoltre con le ultime due come autrice e per Quaerere anche come editor). Un altro racconto è stato inserito nell’antologia “Mi sentite?” a cura di Cattedrale – Osservatorio del racconto e Scuola del libro. Scrivere e leggere sono le sue grandi passioni, poi vengono gli amici, la musica, i viaggi.
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