17 Dic Frammenti di un discorso (cine)amoroso
Frammenti di un discorso (cine)amoroso.
Conversazione con Ilaria Pezone
Di Dafne Franceschetti
Tra le cineaste più interessanti del panorama cinematografico italiano si fa notare Ilaria Pezone, videoartista e docente nell’area milanese. Il suo è un cinema sperimentale sì, ma per dirlo con le sue stesse parole, di prossimità, privato, amoroso. Ne è una conferma il suo ultimo lavoro presentato al Filmmaker Film Festival di Milano, un film che guarda alle mura domestiche che ci accolgono, al quotidiano familiare ed al cielo che ci sovrasta: INCEDERE + RETROCEDERE = ASCENDERE (TESTAMENTO). Che si tratti d’un testamento, come il titolo vorrebbe farci intendere? Abbiamo incontrato Pezone per discutere insieme della difficile sopravvivenza del cinema sperimentale in Italia, di arte, di filosofia e di stelle…
Ilaria: Mi intervisti in un periodo di “crisi artistica” in cui sto prendendo in considerazione di smettere di fare film, non so se per un breve o lungo periodo… Ho iniziato a giocare con il cinema a dodici anni e da allora non mi sono più separata dalla macchina da presa… naturalmente elaborando negli anni un mio linguaggio, sperimentando anche con il montaggio… mantenendo tuttavia un sempre più flebile contatto con la realtà tangibile, quella a me più vicina: vivendo di più con la macchina da presa, in pratica, e meno intensamente senza. È questo, credo, il nodo della crisi, ed è anche vero che non sono mancate difficoltà nel far circolare i miei film. Se togliamo Filmmaker Film Festival a Milano, in cui ho presentato il mio ultimo lavoro, Metacinema in Accademia a Bologna, Ibrida festival a Forlì, Avvistamenti a Bisceglie e il Working Title Film Festival a Vicenza (dove quest’anno il mio Var-hami ha vinto la menzione speciale della giuria), pochi sono i Festival con un occhio di riguardo a un certo tipo di cinema. Fino a un paio di anni fa c’era Satellite alla Mostra del Cinema di Pesaro, che però ora non esiste più, dunque senza Satellite si viene a chiudere un canale importante per chi come me lavora sul linguaggio cinematografico e non su film facilmente distribuibili con case di produzioni alle spalle. I miei film sono interamente autoprodotti ed è chiaro dunque che sia molto più faticoso farli circolare: all’estero sono approdata a qualche piccolo cineclub, in Italia non sto riuscendo a trovare altre vie per mostrarli.
Ho ideato io un piccolo festival, che quest’anno è giunto alla seconda edizione “rinnovata”, sfruttando appieno le possibilità offerte dalla fruizione in streaming, aprendo a un pubblico decisamente più ampio: Sirene wAVe Movie – Extended Eye (https://filmfreeway.com/SirenewAVemovie) a Sesto San Giovanni, insieme al GFS – Gruppo Fotoamatori Sestesi, su invito degli organizzatori Alberto Ravanelli e Mauro Conti. Si tratta di un festival che cerca e promuove sguardi nuovi e interessanti, a partire dall’idea di cineamatore di Stan Brakhage. Lì sono selezionatrice insieme a critici cinematografici o personalità nel campo dell’arte molto attente al linguaggio, appassionate e appassionanti: l’anno scorso Dario Agazzi e Luigi Erba, quest’anno Dario Stefanoni e Alessia Astorri, con cui spero di poter proseguire i prossimi anni.
Venendo a quanto dici tu: il lavoro che operi è sì di montaggio, ma con un approccio così profondamente istintivo, intimo, che ricorda in un certo senso anche l’ultimo Roland Barthes, e con lui un certo strutturalismo che verso il tramonto, col procedere degli anni Settanta, ripensa se stesso, con la sua pretesa scientificità che si fa anche sentimentale, privata. Ecco, il tuo non sembra solo un cinema ‘scientifico’ di montaggio, di assemblaggio, ma si tratta, a mio avviso, di un cinema amoroso, un cinema sentimentale.
La cosa che colpisce infatti è proprio come la vita, la tua vita, soprattutto nel tuo esser madre ed esser donna, entrino prepotentemente in un film, pensando soprattutto a Incedere, che d’altro canto sa esser anche matematico. Come se si trattasse dei tuoi, personalissimi, frammenti cinematografici di un discorso amoroso.
Ti ringrazio per questa tua osservazione molto acuta. È proprio così che vedo i miei film e, inoltre, c’è un professore dell’Accademia di Bologna con cui ho collaborato varie volte, Piero Deggiovanni, che ha definito il mio cinema proprio «strutturalismo sensibile». Una delle protagoniste, un’archeologa, di uno dei miei videoritratti ha detto invece che io pratico un’archeologia dei sentimenti, definizione che apprezzo molto. Sì, partiamo da premesse strutturaliste, ovvero io concepisco i miei film come delle strutture matematico-musicali che però tendo a rendere il meno schematico possibile nel momento del montaggio, facendo comunque rientrare in qualche modo la potenza della vita all’interno di queste immagini, che sono immagini intime, personali, private.
In un certo senso, ne parlavo l’altra sera con Mauro Santini – colto cineamatore in senso brakhageiano – penso che i miei film rispettino la mia personalità, anche sul piano astrologico. In effetti io sono Capricorno, ascendente Scorpione e ho la luna in Bilancia e, non ci avevo mai riflettuto prima, ma gli aspetti dell’introversione e del determinato pragmatismo capricornino, declinati verso un sempre più profondo e tormentato inabissamento nei meandri dell’anima (Scorpione), sono riequilibrati dal distacco emotivo che si fa motore di azione (Bilancia), nella vita ma anche nei film: cerco e apprezzo le emozioni più forti, per poi osservarle a distanza, senza immergermici pienamente; ciò corrisponde allo spaesamento che potrebbe vivere lo spettatore ipotetico di un mio film. Potrebbe sentirsi fortemente coinvolto emotivamente, senza provare lo spasmo del sentimento, poiché è subito invitato e rigettarlo e a guardare altrove.
Sì, in effetti in questo film, e non solo, il discorso sull’astrologia ritorna chiaramente, a partire dai tuoi meravigliosi titoli, penso ad esempio Luna in Capricorno, del 2018.
I: Sì, è così, sono attratta dal sapere più antico. L’astrologia, o meglio, l’esoterismo, torna anche nel mio ultimo film, che spero possa non rimanere inedito perché sono subentrati dei problemi con la protagonista, che mi auguro di poter risolvere. L’ho proprio pensato come film conclusivo di un ciclo. In passato ho lavorato anche sul sogno, oltre che sul ritratto… è possibile ancora per qualche tempo vedere qualcuno di questi film sulla piattaforma Indiecinema (https://www.indiecinema.it/france; https://www.indiecinema.it/1510-sogno-su-carta-impressa-con-video).
Senza contare poi che in Incedere il cielo e le stelle sono sempre presenti, un vero elemento ricorrente, quasi una metafora ossessiva oserei dire, e inoltre sono entrambi presenti anche nel titolo, con questa allusione all’ascensione. Anzi, mi sembra che nel titolo ci sia proprio racchiuso tutto il tuo discorso precedente: la parte terrena, ctonia, e poi quella celeste. Incedere, retrocedere, un qualcosa anche di auto-distruttivo, come dicevamo, ma infine l’ascensione, il movimento verso l’alto…
Sì, senza ombra di dubbio il titolo rispecchia il film. I titoli li concepisco sempre così, devono rispecchiare anche strutturalmente il mio lavoro.
Ma dunque, tornando invece al cinema che nel tuo libro Il cinema di prossimità: privato, amatoriale, sperimentale e d’artista (Falsopiano, 2018) definisci appunto «di prossimità», come lo coniughi con il documentario, o meglio, come ti collochi all’interno dello smisurato e ambiguo mondo del cinema del reale? Ammesso che ti ci voglia collocare, sia chiaro.
Di certo non mi definisco documentarista, …tuttavia quel che faccio non è nemmeno finzione.
Partendo comunque dal presupposto che il documentario non è mai oggettivo, è sempre cinema e quindi sempre “finzione”, costruzione, in questo, dunque, può rientrare a pieno titolo anche la mia ricerca. Che d’altronde non è nemmeno solo ritrattistica: penso a 1510 – sogno su carta impressa con video, o a lavori precedenti, legati alla videoarte (Leggerezze e gravità https://www.youtube.com/watch?v=h5reo9Qq3JQ, Ancora gravità (non interessanti) https://ephemereye.art/ilaria-pezone/) o ai videoclip musicali (tra questi, il videoclip per Antiteq, un montaggio da film amatoriali provenienti da archivio privato https://youtu.be/LpnPyhYI8E4).
Il motivo per cui faccio rientrare una parte del documentario, inteso come una modalità ben specifica di lavoro, nel cinema di prossimità, è sicuramente legato al fatto che si va alla ricerca della verità. Ecco, a livello personale il mio interesse, la mia unica reale passione è l’approdo alla verità, cioè la ricerca della verità. E questo riguarda sia i personaggi che incontro – in quelli che chiamo documentari per via di una forma e una modalità di lavoro sicuramente riconoscibili – sia il lavoro sui miei archivi personali. Questo è l’elemento che può accumunare le due forme.
Quindi parliamo di cinema documentario che è a sua volta anche cinema combinatorio, un’arte che abbraccia il gioco del mondo.
Sì, sicuramente si tratta d’un ibrido: c’è racchiusa anche la videoarte in questo modo di fare cinema, che però non rinuncia alla narratività; ecco, io non sono mai riuscita a rinunciare davvero alla narrazione, per quanto frammentaria questa possa essere. Per me c’è sempre un inizio, uno svolgimento e una fine. La mia capricornitudine concepisce così la forma. La parte scorpionica invece la vuole annientare totalmente. O è così, o sarà il nulla, l’informe: la vita? Lascerò decidere alla Bilancia, come sempre. (Scherzo).
Quello che dici è evidente in effetti, e talvolta, correggimi se sbaglio, si ha quasi l’impressione di avere davanti agli occhi una dimensione letteraria, quasi da romanzo, sperimentale certo, ma sempre romanzo.
Una letteratura combinatoria, citavo appunto «il gioco del mondo», dunque Cortázar, oppure un Italo Calvino, con il suo portato di gioco.
Allora, …io in realtà non faccio consciamente riferimento alla letteratura, non mi è mai capitato. In effetti per Leggerezze e Gravità mi ero soffermata proprio su Calvino. Più spesso, però, faccio riferimento alla filosofia, o alla fisica (Masse nella geometria rivelata dello spazio-tempo si riferisce alla teoria della relatività, ad esempio, e in generale sono molto più interessata alle questioni di astrofisica o alle neuroscienze, piuttosto che a una cultura letteraria). Uno dei miei primi film era legato a Wittgenstein, un’opera sperimentale, di videoarte, una videoinstallazione fatta a livello accademico, intrecciando proiezioni video a esposizione di dipinti (questa installazione è stata poi adattata per il Busto Arsizio Film festival, nel 2018, a cura di Gabriele Tosi). Italo Calvino sicuramente ritorna nei miei lavori, ma non autori di narrativa. L’ho fatto nei miei primissimi video di quando ero ragazzina. Non mi riferisco mai ad autori di narrativa: se c’è, è un qualcosa a livello inconscio.
E invece a livello cinematografico o artistico quali sono i tuoi riferimenti?
Questa è una domanda difficile. Mi sono avvicinata al cinema guardando i film più commerciali in assoluto, e questo quando ero alle medie (alle elementari ho fatto incetta di film comici, tra un Walt Disney e l’altro. Da Totò, a Jerry Lewis, a Troisi) e ne ho fatta una scorpacciata non indifferente, da Matrix e vari film di fantascienza che mi interessavano in quel periodo, fino a film che indagano psicologicamente i personaggi. Poi mi sono distaccata da questo perché mi ha annoiata subito, superata l’età adolescenziale, e mi sono innamorata del lavoro di Jon Jost, che ho conosciuto al liceo, perché ho visto un cinema molto libero, che mai prima di allora avevo incontrato, e veramente mi ha aperto una prospettiva che non conoscevo; poi chiaramente da Jon Jost in poi ho conosciuto tantissimi altri cineasti sperimentali che ho trovato affini, per esempio Johan Van Der Keuken e molti altri che ora potrei elencare ininterrottamente ma non mi vengono in mente, neanche a farlo apposta. Poi, come dicevo, sono anche passata per la videoarte: mi attraevano moltissimo anche le videoinstallazioni di Studio Azzurro, i video di Bill Viola, …cioè mi è sempre interessato anche il giocare con lo spettatore e l’interattività, però nel senso di un’interazione mentale, …non servire una storiella semplice ma dare un puzzle da comporre e comunque un puzzle guidato con differenti possibilità di combinazione.
Certamente questo tuo chiaro lavoro sull’interattività ti colloca più nel terreno dell’arte, forse, che nel cinema come siamo abituati a fruirlo adesso…
Esattamente, solo che sul versante artistico la vana “fatica di emergere” è la medesima. Poi sai, io sono all’età limite dopo la quale non puoi più emergere, puoi solo affondare, perché ho trentacinque anni. Così dicono i bandi per artisti emergenti.
Eppure hai una carriera lunghissima alle spalle. Pensi che le difficoltà siano dovute proprio a questa tua stessa ibridità, a questo tuo essere anfibia tra il mondo del cinema e dell’arte?
Sì, credo che il punto sia proprio questo. Comunque io andrò avanti facendo lavori miei, personali, non so immaginarmi senza “fare”. Non so se film, perché il cinema mi assorbe troppe energie. Io lavoro in due scuole, all’Accademia di Belle Arti e nella scuola pubblica, alle medie; uso l’estate per “creare”, ma ho anche una famiglia, quindi per me diventa veramente difficilissimo conciliare tutti questi aspetti, cioè, bisogna prendere atto del fatto che la vita è più forte se non si antepone a tutto il proprio egoismo.
Speriamo allora che questo film non sia un vero testamento come il titolo vorrebbe farci credere, ma del resto ce n’è un altro pronto, quindi in realtà già ti sei contraddetta…Ad ogni modo volevo tornare un attimo al film che hai presentato nella sezione Prospettive a Filmmaker, quest’anno, perché si tratta d’un’opera davvero ricca di elementi, a partire dalla psicanalisi innanzitutto, con un continuo riferimento alla filosofia junghiana. Non credo sia un caso, perché questa scelta?
E ancora, in tutti questi archetipi che parlano a tutte e tutti entra prepotente la tua vita, la tua biografia con alcuni elementi privati anche molto emozionanti, viscerali, penso all’elaborazione del lutto o alla rappresentazione dei tuoi attacchi di panico. Siamo davanti a una vera biografia o al gioco del documentire?
Si tratta di cose vere, io non amo riprendere cose costruite: se c’è una costruzione è una costruzione a livello d’immagine, perché le immagini pensate per il cinema non sono mai proprio immagini casuali, perché so che le guarderà anche qualcun altro e dunque le realizzo sempre con un occhio distante, che mi osserva agire, come dicevo prima. Ad esempio, la scena che citavi dell’attacco di panico l’ho girata per distrarmi. Mi sono detta: proviamo a parlarne, cercando di distaccarmi da questo problema, di usare lucidità e di manovrare il cervello per non lasciarmi manovrare, come accade in questi casi. Quindi il primo spettatore di ciò che giro sono io stessa, che non ho uno sguardo innocente rispetto a ciò che sto filmando. Che cosa significa dire la verità o mentire, attraverso le immagini? Mentiamo sempre a ci autoinganniamo costantemente, le immagini sono solo l’amplificazione silente di questo nostro modo di stare al mondo.
Dunque sì, quanto si vede nel film è vero, però non ritenevo interessante per nessuno, passatemi il termine, spiattellare la mia vita così, dunque ho deciso di aggiungere una colonna sonora alle immagini: questa Radiofonia di Dario Agazzi, composta da una piccola intro musicale ad affiancare poi la lettura enciclopedica dei complessi, per poi finire ancora con una breve musica sintetizzata (quindi, anche in questo caso: un’emozione contenuta, implosa). Ho frammentato il brano e l’ho collocato in varie parti del film perché mi sembrava che desse una chiave ancora più aperta a quello che poteva essere un punto di vista di partenza così autoreferenziale sulla mia vita, cosa che invece a me non interessava molto. Ho voluto piuttosto guardarmi esternamente e quindi anche leggermi attraverso i complessi per esempio, leggermi, o meglio, provare a trovare una chiave di lettura universale.
Quanto a Jung, io sono molto legata alla sua figura perché anche la lettura di Sincronicità è stata per me illuminante, per cui il caso non esiste! Io parlo sempre di “caso”, ma so che non si tratta di caso, bensì di qualcosa di molto potente che non siamo in grado di decifrare nella nostra dimensione. Inoltre Jung parla di inconscio collettivo e la cosa mi ha sempre colpito nel profondo; senza contare che ho fatto uscire il film nel gennaio del 2020, avendolo realizzato molto prima della pandemia, eppure mentre lo montavo avevo questa sorta di presentimento di disgrazia incombente.
Una cosa simile mi è successa con un altro film che è 1510 – Sogno su carta impressa con video, che nasce da un sogno, un incubo che ho fatto anni prima della mia gravidanza, che non era nemmeno lontanamente nei miei pensieri: è infatti proprio un film che allude alla maternità, al cambiamento. Nel sogno io perdo tutti i denti e perdere i denti in sogno indica grande cambiamento. Mi aveva molto scossa, per questo avevo voluto provare a fermarlo in un’animazione.
Forse la cosa più straordinaria del tuo film è la dimensione di interattività che costruisci, che fa sì che nel tuo privato lo spettatore riesca a trovare qualcosa di personale, e rivedere se stesso nel profondo.
Anche lo stesso titolo, che è un qualcosa di assolutamente privato, testamento, sì, ma che può tramutarsi in un manifesto collettivo.
Ti ringrazio per questa bella e profonda chiacchierata!
Travis Gavit
Posted at 09:29h, 19 Dicembreexcellent